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Jfk, Cinquant’anni dopo.

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di Cristiano Ottaviani (*)

Il 22 novembre di 50 anni fa a Dallas veniva ucciso il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. La sua storia è emblematica perché non solo è quella di un grande personaggio del 900, ma anche parabola dell’ America e dello stesso Occidente.

Nato nella ricca e potentissima famiglia dei Kennedy a Brookline, presso Boston nel Massachusetts il 29 maggio 1917 John,anzi Jack come lo chiamavano i suoi, si mostra tutt’altro che l’estroverso personaggio descritto da certa agiografia. Malato sin da giovane del morbo di Addison e con seri problemi alla colonna Jfk per tutta la sua esistenza fu ossessionato dalla morte e in lotta con il dolore anche se la sua vita, grazie alla sua forza interiore e ai cospicui mezzi del suo clan, fu comunque ricca e frenetica. Dopo la laurea in Relazioni internazionali, il giovane Kennedy si mostra un viaggiatore curioso con ambizioni intellettuali. Vuole divenire scrittore e storico, ma ama la politica.

Allo scoppio della guerra, nonostante il fisico malandato, usa l’influenza della famiglia per farsi arruolare e andare a combattere. Lo fa come ufficiale di marina nel Pacifico. I giapponesi silurano la sua nave ma Kennedy salva se stesso e molti dei suoi nuotando per giorni nell’oceano. E’ decorato e si congeda con onore.

Papà Joe, mammasantissima della finanza americana, spregiudicato e scaltro come pochi altri, vede in suo figlio i crismi giusti per la carriera politica. Lo aiuta con molti soldi e furberie e lo fa eleggere membro della camera dei rappresentanti e poi senatore. Per Jfk, nonostante i successi, non sono anni facili. Affronta con coraggio il suo stato di salute, molto peggiorato a causa delle ferite di guerra, ma conosciuto da pochi intimi Nel 1947 gli pronosticano un anno di vita, a metà anni 50 deve provvisoriamente abbandonare la scena pubblica ed è costretto ad usare una sedia a rotelle. La sua concezione romantica della storia, incentrata su ricordi che vanno da Churchill a Artù, la non comune forza interiore e la fede cattolica, mai autenticamente praticata, ma sentita forse più profondamente di quanto si immagini, lo aiutano.

Si riprende al punto da tenere il discorso ufficiale del candidato democratico alla presidenza del 1956. Vince il premio Pulitzer scrivendo un libro di ritratti biografici su personaggi storici di differente opinione politica, ma accumunati dalla virtù che maggiormente stima, il coraggio. Sposa la bellissima ed elegante Jacqueline Lee Bouvier da cui ha quattro figli e verso la fine degli anni 50 è tra i più conosciuti politici del paese. Si occupa di politica estera, la grande passione dai tempi dell’università, ma anche di problemi economici e sociali.

Nel 1960 si candida alle presidenziali. L’apparato propagandistico dei Kennedy è perfetto,ma Jack ci mette del suo. I capelli folti, talvolta arruffati dal vento, e l’oratoria al tempo stesso epica ed empatica, non immune dal gusto per la battuta colorita piacciono ai più e, sia pure per uno strettissimo numero di voti, ottiene la Casa Bianca.

E’ la Nuova Frontiera. Circondato da intellettuali e da tecnici di grande valore, coraggiosissimo il giovane Presidente, che sa ascoltare ma anche decidere, rilancia l’economia con provvedimenti importanti. Sfida i razzisti del sud tutelando i diritti dei neri mentre affida a suo fratello Robert il ministero della giustizia per dare guerra senza quartiere alla criminalità organizzata. Nel discorso inaugurale del 20 gennaio 1961, da vero erede di Roosvelt e del New Deal, dichiara “la tirannia, la povertà, le malattie e la stessa guerra” i nemici comuni dell’uomo contro cui combattere. Vuole la pace ma se che per averla occorre la forza.

Subisce una sconfitta quasi letale con la Baia dei Porci, ma da lottatore si riprende. Va a Berlino, dove da poco i comunisti hanno edificato il muro, e tiene il famoso discorso di solidarietà del mondo libero che termina con la frase “Io sono berlinese”.Quando Krusciov, che lo giudicava un inetto figlio di papà, prova a installare i missili a Cuba, gli tiene testa. Fronteggia i falchi che avrebbero voluto la guerra preventiva, e le colombe, che fingendo di ignorare il pericolo ponevano le basi per un conflitto ancora peggiore. Ancora una volta calmo e risoluto parla alla nazione e proclama l’embargo su Cuba. Il mondo si ferma. Si sa che un minimo dettaglio può far scoppiare un olocausto nucleare. Per alcuni giorni incorrono trattative segrete, ma alle fine i russi smantellano le basi , Kennedy ha vinto.

Può dedicarsi alla pace. Prova a basare sul reciproco rispetto i rapporti con l’ America Latina e l’ Europa, tenta di disimpegnarsi dal Vietnam, ma soprattutto si occupa della distensione. Dopo aver denunciato le ingerenze del governo ombra costituito dall’apparato militare, e aver ribadito che “l’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”, all’American University pronuncia il suo ultimo famoso discorso in cui dichiara rivolgendosi ai sovietici “non concentriamoci solo sulle nostre differenze, ma pensiamo anche ai nostri interessi comuni.. il nostro più elementare legame è che tutti noi abitiamo questo piccolo pianeta, respiriamo la stessa aria, ci preoccupiamo per il futuro dei nostri figli, e siamo tutti mortali.” E’ il 19 giugno del 63, verrà ucciso poco più di 5 mesi dopo a Dallas in Texas il 22 di novembre.

Se sulla sua morte si è scritto tutto e il contrario, la sua presidenza, durata poco più di mille giorni, è ancora studiata e ammirata non tanto per ciò che fece, ma per quello che rappresentò. Probabilmente mai come in quegli anni, dove al governo ci fu “ un idealista senza illusioni”, l’Occidente, uscito da una guerra terribile, raggiunse benessere economico e civile, base per tutte le conquiste degli anni successivi.

Il “sessantottismo”, espressione di una sinistra senza padri e senza storia, e i revival conservatori incentrati sul liberismo patriottardo ed egoista degli anni ottanta, fino alla odierna crisi sono tutti orfani della di quella speranza. In quegli anni, che per noi erano l’inizio del boom e l’avvio del centro sinistra, sembrò veramente che ci fosse una nuova classe dirigente, forgiata sui campi di battaglia ,vigorosa e intraprendente come la giovane America; ispirata si, dalla libertà dei pionieri e dalla giustizia sociale di Roosvelt, ma educata ancora alla storia dalla vecchia , aristocratica e cristianissima Europa. Quella auspicio fu ucciso a Dallas 50 anni fa.

Se il mito di Kennedy ancora perdura è perché simboleggia il rimpianto di ciò che avremmo potuto essere ma non siamo stati. Jfk, uomo delle incertezze del 900, sapeva che per ridare fiducia alla società in cui viveva, come lui malata e ferita, era necessario ridestare “saldezza morale”.Fu l’ultimo uomo di governo della sinistra democratica ad avere presente che senza, sono sue parole, “l’antica devozione spartana al dovere, all’onore e alla patria” non è possibile avere vera pace e autentico progresso. Questa consapevolezza è la sua forza e la sua ancora attuale eredità.

Si racconta che quando Kennedy fu assassinato ci fu chi disse:“Camelot è caduta”. Sarà, ma la Storia, che a tratti sa essere anche poesia, ci insegna che Camelot, così come il mito del giovane presidente progressista ucciso a colpi di pistola mentre con forza edificava pace e lottava contro le ingiustizie, non cadrà mai perché l’antico regno del bene e del male, per tutti gli uomini che con buona volontà e coraggio sfidano sofferenza e illusioni, non è un sogno, ma l’ispirazione con cui costruire un mondo migliore.

 (*) Giornalista Pubblicista- Vicecaporedattore Informazione Quotidiana

Il Blog di Ottaviani: http://cristianottaviani.tumblr.com/post/67741511974/jfk-cinquant-anni-dopo

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