Il Boston Public Garden è un parco della città di Boston; al suo interno è presente un monumento noto come Ether Monument, posto per commemorare il primo utilizzo dell’etere come anestetico. La statua rappresenta un medico vestito in stile moresco e con un turbante, ma non si sbilancia nel prendere una posizione su chi possa essere considerato il vero padre dell’anestesia, evitando di riportare nomi. Ciascuno dei protagonisti di questa storia che si conclude con il presente articolo ha avuto un ruolo importante, benchè oscurato dall’avvicendarsi degli eventi.
Nel precedente articolo era stato accennato il nome dell’ultimo protagonista di questo fatto storico: William Green Morton. Egli si diplomò dentista nel 1842 ed iniziò a lavorare insieme a Horace Wells, fino a quanto, spinto dalla famiglia della moglie, iniziò a studiare medicina presso la facoltà dell’università di Harvard. Non porterà mai a termine gli studi, ma questa esperienza lo mise in contatto con il professor Charles Jackson, che in quegli anni stava studiando le proprietà dell’etere.
Fu lui che nel 1844 mise in contatto l’amico Horace Wells con il chirurgo John Collins Warren: la dimostrazione fornita da Wells sulle proprietà del protossido di azoto fu un fallimento, ma colpì molto Morton, che iniziò così i suoi esperimenti, arrivando a scoprire che l’inalazione dei vapori dell’etere puro dava sonnolenza e incoscienza. Il 30 Settembre del 1846, riuscì ad eseguire con successo una estrazione dentaria senza che il paziente provasse dolore, il quale, accompagnò quel giorno stesso Morton presso la sede del Boston Daily Journal, che riportò la notizia nell’edizione del giorno successivo.
Grazie a questa pubblicità, riuscì a convincere John Collins Warren a fare un secondo tentativo. Il 16 Ottobre 1946 divenne una data storica: Warren, nella stessa sala del Massachusetts General Hospital, dove due anni prima Wells era stato definito un imbroglione, asporto con successo un tumore dal collo di un paziente, Albert Abbott, al quale Morton aveva fatto respirare i vapori di una spugnetta imbevuta nell’etere, contenuta all’interno di una sfera di vetro. L’aneddotica racconta che lo stesso chirurgo, inizialmente scettico, una volta termina la procedura, abbia esclamato: “Signori, qui non c’è nessun imbroglio”.
Prima di quel giorno il chirurgo era costretto ad operare il più velocemente possibile, a scapito dell’accuratezza, ostacolato dalle grida del paziente e dalle sue eventuali opposizioni; dal 16 Ottobre 1846 tutto sarebbe cambiato a favore di una maggiore calma e precisione dell’atto chirurgico.
L’evento fece inizialmente la fortuna di Morton: ricevette la tanto sognata Laura in Medicina, anche se ad Honorem, divenne famoso. Ricevette una lettera di complimenti da parte del poeta Olivier Holmes, il quale proponeva di chiamare “Anestesia” la sua nuova scoperta, termine che in greco si traduce come “senza sensazione”.
Purtroppo la fortuna per lui fu come una curva che presto iniziò a discendere: egli infatti non si limito a voler brevettare l’inalatore, ma si spinse fino a tenere nascosta la natura della sostanza che utilizzava, brevettandola con il nome di Letheon. Presto, però, divenne noto che sotto quel nome si nascondeva il comune etere, pertanto il beneficio economico che sperava di ottenere, si trasformò nell’indignazione dell’opinione pubblica, che lo accusò di non essere etico, arrivando ad addossargli la colpa delle sfortune e del successivo suicidio del suo vecchio amico e collega Horace Wells.
Quello che doveva essere il più grande successo della sua vita, si trasformò nella sua fine: il suo studio dentistico fallì ed egli dovette reinvertarsi nell’agricoltura. Morì a 48 anni, il 15 Luglio del 1868, a seguito di un collasso, durante un’eccezionale ondata di calore a Central Park.
Giunti all’ultimo episodio della storia della nascita dell’anestesia moderna, dopo la lettura di quest’ultimo tassello, sembra di trovarci di fronte ad una “maledizione di Tutankhamon” in ambito moderno: tutti i protagonisti hanno infine vissuto sfortune, delusioni e, in alcuni casi, una vera e propria rovina, come se la possibilità di vincere il dolore avesse chiesto all’uomo un pesante tributo