Plinio il Vecchio asseriva che “defigi quidem diris precationibus nemo non metuit”, ossia non c’è nessuno che non tema di essere maledetto con preghiere sinistre. Il grande naturalista era ben consapevole di quanto fosse diffusa la superstizione tra i suoi contemporanei e di quanto essa fosse motivata dal fatto che le pratiche magiche malevole erano usate senza troppi complimenti. D’altronde, gli esseri umani hanno sempre tentato di agire, al di là delle azioni pratiche, e soprattutto quando queste non erano possibili, in un modo invisibile e magico per frenare o colpire i propri nemici. Iniziamo quindi un viaggio un po’ diverso dal solito, in cui ci addentreremo in un aspetto curioso e poco conosciuto dell’antica Roma: la magia nera e le maledizioni.
La magia nasce in Persia, si diffonde in Grecia…
Storicamente, i primi a dedicarsi in maniera sistematica alla magia furono i Persiani. I cosiddetti magi erano i maghi dei sacerdoti, i quali ripetevano una serie di formule sussurrate, formule segrete, antiche e complesse la cui conoscenza e la cui diffusione avveniva solo per via orale. Numerose fonti riportano esempi di incantesimi e pratiche magiche messe in atto per diversi scopi e in diversi modi. Da questa area geografica deriva l’uso della bacchetta magica, che i maghi del tempo agitavano mentre pronunciavano gli incantesimi; e il cerchio magico, tracciato per difendere il praticante dall’atto magico degli spiriti invocati deriva sempre da lì. Da ultimo, anche l’impiego di amuleti per difendersi da maledizioni e demoni è un lascito medio-orientale. Giunte nel mondo greco, le dottrine e pratiche persiane, unite all’astrologia a all’alchimia diedero vita alla tradizione magica greca. In tale contesto la magia assume una definizione che sarà poi quella occidentale che noi conosciamo con un’accezione negativa, legata a tutte le attività notturne che avvengono di nascosto.
…e arriva a Roma
Il concetto di magia elaborato dai Greci arriva poi nella Roma arcaica che quindi eredita da tutto il mondo greco e persiano questo tipo di tradizione. La storia della Roma arcaica è fatta anche di magia e di maledizioni, separate dalla religione ufficiale. Infatti, mentre questa riguarda la res publica (quindi i cittadini romani), nella quale vi sono codificate pratiche comuni, la magia rientra nella sfera privata. Ovviamente, non tutta la magia era malefica.
La magia protettiva
La magia medica era la più diffusa. Per mezzo di formule magiche essa permetteva di curare tramite trattamenti, e la cui finalità era quella di superare le malattie, di lenire il dolore, di accelerare la guarigione dopo una febbre o dopo un evento che aveva debilitato il fisico.
La magia protettiva nel senso stretto del termine, come si può intuire, usava delle formule magiche che servivano a proteggere i propri cari. Di pari passo era la realizzazione di amuleti, delle gemme magiche che proteggevano la persona, allontanando i pericoli: un metodo particolare era quello di realizzare delle lamine di metallo con incise formule magiche particolari che venivano poi arrotolate e appese al collo, esattamente come facciamo noi oggi quando portiamo un amuleto o una pietra energetica.
I Romani erano superstiziosi
La pratica di ricorrere alla magia protettiva era diffusa praticamente ovunque a Roma. Sembra strano che un popolo famoso per essere pragmatico e concreto possa aver avuto un debole per il magico, l’occulto e il mistero, eppure era proprio così. La loro superstizione emergeva quando pensavano che portasse sfortuna rovesciare vino, olio e acqua, incontrare per strada muli con un carico di ipposelino (una pianta che ornava i sepolcri), un cane nero che entrava in casa, un topo che faceva un buco in un sacco di farina, una trave della casa che si spaccava senza motivo. Se queste superstizioni vi sembrano bizzarre, pensate ai gesti apotropaici che oggi si compiono quando passa un carro funebre vuoto…
Sempre Plinio il Vecchio ci racconta che Giulio Cesare, dopo che il suo carro si era rotto durante la celebrazione del Trionfo, recitava sempre uno scongiuro che ripeteva tre volte per garantirsi la sicurezza del viaggio.
La magia nera
Accanto a queste pratiche in fin dei conti innocue, attinenti alla magia cosiddetta bianca, esisteva qualcosa di ben più inquietante e terrificante: la magia nera e la negromanzia, ossia la magia dei defunti ritenuti in grado di portare messaggi agli dèi e di prevedere il futuro: Nerone fu accusato di aver indugiato in tale pratica, avendo evocato (si diceva) lo spirito della madre per chiederle perdono, dopo averla uccisa.
La paura nei confronti della magia nera era così profonda che, nel primo codice di leggi romane, le Dodici Tavole, veniva emanato il divieto di far sparire il raccolto dei vicini tramite incantesimi (non è chiaro come un raccolto potesse sparire in questo modo, ma i Romani ci credevano). Nell’81 a.C., la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, voluta dal dittatore Silla, inasprì le pene per il veneficium, ossia l’avvelenamento magico, prevedendo la pena di morte per chi esercitava le arti magiche finalizzate a delitti. Gli arresti di massa furono frequenti. Nel 331 a.C. vennero giustiziate 170 donne con l’accusa di aver fornito pozioni magiche velenose. Nel 16 a.C., dopo l’arresto di Libone (un politico della gens Scribonia, accusato di complotto sovversivo) da parte di Tiberio, furono giustiziati 45 uomini e 85 donne per aver violato le leggi sulla magia. Nel 185 a.C. anche lo scrittore Apuleio di Madaura fu processato per aver usato la magia allo scopo di sedurre una ricca vedova.
Antiche fatture: le defixiones
Quando morì Germanico, il vendicatore di Teutoburgo, molte furono le chiacchiere sulla sua morte inaspettata a soli 29 anni. Anche Tacito riferisce la convinzione dei suoi contemporanei che nella sua casa dovevano essere stati messi in opera sortilegi di magia nera poiché furono trovate, seppellite sotto i pavimenti, ossa e tavolette di bronzo su cui erano scritte formule magiche e maledizioni contro Germanico. Si trattava delle famigerate e temute Tabulae maledictoriae o Tabulae defixionum. La defixio era un maleficio per cui si dedicava il nemico alle divinità degli inferi per farlo soffrire o morire. Il supporto sul quale venivano scritte le invettive era un materiale resistente come il bronzo, anche se era diffusissimo il piombo in quanto metallo economico e duttile, sul quale era facile praticare un’incisione che si mantenesse a lungo inalterata nel tempo. La scelta del piombo non era peraltro casuale: la sua tossicità, nota già ai tempi dei Romani (vedi Il killer silenzioso), era uno fra i motivi per cui lo si impiegava e per cui assumeva un valore ancor più simbolico nei confronti della persona odiata. Vi si scriveva la formula che invocava la rovina e la morte: “Consacro, seppellisco, elimino dal cospetto degli uomini…” a cui seguiva il nome di chi si voleva maledire. Il nome della persona, il “defisso”, doveva essere ben chiaro e seguito dal nome del padre e della madre; chi non scriveva ben chiaro il nome della vittima rischiava di vedersi ritorcere contro la maledizione. Si inserivano poi verbi come occidere, vulnerare e cruciare (uccidere, ferire, torturare), ed infine il nome di una o più divinità a cui si chiedeva aiuto. La formula magica, scritta in latino ma anche in greco, veniva realizzata graffiando il metallo, poi la lamina veniva ripiegata e trafitta con uno o più chiodi, da cui il termine che deriva dal verbo defigere, cioè “inchiodare”. Tale significato, per estensione, passò alla pratica di arrecare danno a qualcuno attraverso un sostituto come, appunto, le tavolette; vi è, tuttavia un’accezione più intima della parola: fissare, paralizzare, inchiodare qualcuno per renderlo impotente a reagire e a difendersi dalla maledizione lanciata. Così facendo si attuava una sorta di effetto simpatetico di identificazione tra l’atto fisico della trafittura e l’invocazione del castigo divino. Queste lamine erano, in alcuni casi, accompagnati da sigilla (sigilli in piombo oppure in argilla o cera) che presentavano degli elementi organici del “defisso”, anch’esse attraversate da un chiodo. Una volta completata tutta l’operazione, le tavolette venivano nascoste presso tutti quei luoghi che si ritenevano spazi privilegiati di contatto tra il mondo terreno ed ultraterreno, come grotte, fonti, templi e soprattutto tombe di individui morti prematuramente o violentemente. Questo atto rispondeva a due necessità: da un lato, celare l’iscrizione agli occhi indiscreti di lettori viventi, dall’altro di affidare la propria maledizione alle forze infere o alle anime dei defunti.
I motivi che scatenavano tali maledizioni erano torti subiti, sottrazioni di beni, truffe di cui si era vittime, rivalità in amore, rivalità nella carriera pubblica, in tribunale e pure nelle corse dei cavalli (ad esempio, in una tabula del II secolo d.C. vi è l’invocazione ad un demone – forse Abraxas – per rendere inabili i cavalli di una scuderia rivale; oppure si poteva inchiodare la lingua di un gallo se si voleva impedire che qualcuno parlasse in un tribunale). Le più antiche tabulae, rinvenute a Selinunte, risalgono al VI secolo a.C. e il loro uso continuò fino al tardo Impero Romano, quando ormai si era ampiamente affermato il Cristianesimo.
Concepite come un metodo di “giustizia individuale” e pertanto illecito e segreto, le defixiones rispondono agli scopi che i defigentes (ossia gli autori delle maledizioni) non potevano raggiungere attraverso la legalità, materializzando così sentimenti come l’invidia, il rancore, il desiderio, la rabbia o il timore. Dal IV secolo in poi, se si veniva scoperti nell’atto di realizzare una defixio, la pena era terribile: la sentenza era di morte immediata per crocifissione, decapitazione oppure nell’arena con le bestie feroci.
Qualche esempio: la Fontana di Anna Perenna
Nel 1999, scavando in Piazza Euclide, nel quartiere Parioli a nord di Roma, le fondamenta di un parcheggio interrato, a 10 metri di profondità fu rinvenuta una fontana rettangolare, con un altare, due basi e delle iscrizioni di magia nera. Si trattava di 22 piccole lamine di piombo strettamente avvolte in rotoli, con su incise maledizioni a lettere sbalzate e capovolte. Il tutto sigillato in 14 contenitori in piombo contenenti inoltre delle figurine antropomorfe fatte con cera, miele ed olio e infilate a testa in giù, somiglianti in maniera impressionante alle odierne bambole voodoo. Sulla fontana che accoglieva le fatture magiche c’era una dedica: “Nimphis sacratis Annae Perennae” cioè “alle ninfe consacrate ad Anna Perenna”. La dedica risale al 156 d.C. e la fontana sembra attestata almeno dal IV secolo a.C. e utilizzata fino al VI d.C. Nella fontana sono stati ritrovati, oltre alle defixiones (che si gettavano in essa perché, attraverso i canali di scolo arrivassero nell’aldilà), anche 550 monete di buon augurio, gusci d’uovo come simbolo di fertilità, pigne, rametti, tavolette di legno, 70 lucerne, un paiolo in rame. Questo ritrovamento ha permesso di identificare con certezza il sito dell’antico bosco sacro di Anna Perenna nell’area dell’attuale Piazza Euclide. In questo bosco vi era un tempietto dove si svolgevano riti magici, officiati fuori dalle mura al riparo da occhi indiscreti perché illegali.
Ci vollero molti anni di restauro e ricerche per srotolare le defixiones in piombo e per aprire i coperchi sigillati dei contenitori. In una di queste tavolette è stata decifrata una maledizione denominata “Snakes”, poiché il testo è circondato dal disegno di quattro serpenti. Al centro di un rombo (figura attinente al mondo dei vivi e a quello dei morti – due triangoli speculari che indicano la comunicazione tra i due mondi) c’è la Dea, regina del manifesto e dell’occulto. Il testo recita: “Strappate l’occhio destro e sinistro dell’arbitro Sura, che è nato da una vagina maledetta” (qui natus est de vulva maledicta). E’, questa, una defixio da accecamento per un certo arbitro che ha mancato a una sua promessa, danneggiato qualcuno o ha arbitrato a sfavore di qualcuno.
Tutti i materiali ritrovati si sono salvati grazie alla triplice sigillatura dei contenitori. Dalle antiche fonti sappiamo che Anna Perenna, un’arcaica dea romana delle origini, veniva venerata fuori porta il giorno di Capodanno, il 15 marzo, così come testimoniatoci da Ovidio nei Fasti. Nel bosco sacro a lei dedicato i Romani montavano capanne improvvisate, con pali e frasche, dove poi danzavano e bevevano.
Le tavolette del Museo Civico Archeologico di Bologna
Riscoperte (come spesso accade) nel 2009 presso il Museo Civico Archeologico di Bologna, le sottili tavolette di piombo sono di provenienza ignota. Esse contengono due maledizioni scritte durante il Tardo Impero, circa 1600 anni fa. I testi sono in latino con invocazioni in greco. Decifrate da Celia Sànchez Natalìas, ricercatrice presso l’Università di Saragozza, le tavolette invocano ogni tipo di calamità contro un senatore romano e un veterinario. Entrambe le maledizioni presentano la raffigurazione della dea Ecate e sono rivolte l’una a un senatore romano di nome Fistus (unico esempio di senatore maledetto) e l’altra a un veterinario di nome Porcello. In molti si sono chiesti se questo fosse il suo vero nome o un insulto. Per quanto sembri strano, era sicuramente il suo vero nome in virtù della regola fondamentale che abbiamo visto prima per un incantesimo come questo: usare il nome preciso del “defisso” per evitare che la maledizione torni al mittente.
Vediamo cosa si augura al povero Porcello: “Distruggi, annienta, uccidi, strangola Porcello e sua moglie Maurilla. La loro anima, cuore, natiche, fegato…”. La tavoletta mostra il malcapitato mummificato, braccia conserte (come anche la figura di Ecate) e il suo nome scritto sulle braccia. Il fatto che entrambi abbiano le braccia incrociate è importante. Secondo la Sànchez Natalìas, infatti, vi sono due interpretazioni: come Ecate è legata, così sarà Porcello; oppure, fino a quando Porcello sarà legato, Ecate rimarrà legata. In entrambi i casi, un destino poco invidiabile per lo sventurato veterinario che fu forse colpevole di non aver salvato un cavallo o un altro animale di un imbufalito cliente.
Anche la maledizione contro Fistus non è da meno. Essa dice: “Annienta, uccidi il senatore Fistus. Possa Fistus diluirsi, languire, affondare e possano tutte le sue membra dissolversi”. Anche in questo caso le motivazioni della maledizione non sono certe: esse non venivano scritte sulle tavolette, così come non veniva scritto il nome della persona offesa o danneggiata per motivi facilmente intuibili. Non sappiamo che fine abbiano fatto questi due personaggi, ma di sicuro le tavolette gettano luce su un aspetto poco conosciuto della società romana.
Due parole su Ecate
L’abbiamo vista raffigurata sulle tavolette di Bologna. Ma perché proprio lei? Invocata da maghi e stregoni, era una divinità originaria della Tracia o dell’Anatolia poi inserita nel pantheon greco dalla fusione tra i vari popoli, e infine inserita nel pantheon romano. Dea triadica, o Triforme, o Trinitaria, viene spesso rappresentata con tre corpi e magari accompagnata da cani ululanti. Regina dei daemones, esseri invisibili che fanno da tramite tra regno umano e divino, era pertanto addetta alla magia. Come Dea Triforme, Ecate aveva la sua manifestazione in cielo come luna, in terra come Signora degli Animali, e negli Inferi come regina dei morti che ella consente alle streghe di evocare nei crocicchi o nelle are dei boschi. Ha diversi attributi che tiene nelle mani: la torcia con cui rischiara il cammino dei vivi e dei morti; il coltello con cui recide il cordone ombelicale dell’infante, ma anche come colei che recide il cordone che lega l’anima al corpo nell’istante della morte; una chiave, per la sua qualità di “guardiana delle soglie”, che può socchiudere le porte dei mondi; il serpente, simbolo della terra e di saggezza. Sacro alla Dea era lo Iugx, chiamato “la trottola di Ecate”, una sfera dorata costruita attorno ad uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio. Facendola girare si operavano le invocazioni. A lei si rivolgevano pertanto le streghe per chiedere favori o gettare le esecrationes, per sé stesse o per coloro che, pagando, le incaricavano di eseguire l’incanto magico.
La magia ha superato i secoli
Concludiamo osservando come le pratiche magiche operate dagli antichi romani siano sopravvissute (nonostante i divieti e le condanne) per tutto l’Impero e oltre. Anche se essi considerarono sempre con sospetto la magia, soprattutto se essa poteva condurre alla morte di qualcuno, i cristiani, tuttavia, andarono oltre. La chiamarono stregoneria e patto col diavolo, e condannarono i presunti attori con la tortura e il rogo in un delirio paranoico di purificazione. Nella seconda metà del XIX secolo, la spinta verso la riscoperta dell’occulto e del mondo esoterico fu enorme. A contribuire alla riscoperta di queste arti è stata la ricca produzione letteraria del mago ed esoterista francese Eliphas Lèvi, che influenzò notevolmente la speculazione dell’esoterismo, della magia e dell’occulto. Contemporaneamente, si assiste alla nascita di diverse società e movimenti segreti dove la magia aveva un ruolo di rilevanza, tra le quali ricordiamo l’Ordre Kabbalistique de la Rose-Croix, fondato in Francia, e l’Hermetic Order of the Golden Down, fondato in Inghilterra. Oggi è difficile analizzare il quadro delle credenze e tradizioni magiche, a causa della grande varietà e diversità delle tradizioni attualmente esistenti, ma questo esula dalla nostra sfera di competenza. Ciò che possiamo affermare, comunque, è che oggi le nuove religioni neopagane non corrono più il rischio di persecuzioni e possono esercitare il loro credo e i loro rituali in totale libertà e tolleranza. E con esse, i moderni maghi e maghe hanno la facoltà di attingere a conoscenze e tradizioni antiche che fanno parte delle nostre millenarie radici culturali, quelle che ci definiscono oggi, che sono scritte nel nostro DNA e che la delirante non-cultura woke vuole cancellare ad ogni costo.