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Palermo, Teatro Massimo – Turandot.

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Turandot regna in Sicilia. Complice il centenario pucciniano, celebrato in tutto il mondo, il testamento spirituale del musicista toscano ha punteggiato la programmazione di tre enti lirici isolani, che peraltro – quanto meno – hanno puntato su un elemento di originalità: il finale, proposto nella versione di Luciano Berio a Catania, omesso a Trapani, secondo l’indicazione toscaniniana della prima, e invece affidato alla prima riflessione di Franco Alfano, in occasione dell’ultima, recente ripresa al Teatro Massimo di Palermo. Eseguito per la prima volta in concerto a Londra solamente nel 1982, quindi utilizzato almeno fino alla ripresa salisburghese del 1994, il primo finale di Alfano merita attenzione forse in punto drammaturgico, più che musicale. Benché entrambe le versioni attingano allo stesso materiale, gli abbozzi pucciniani, il primo finale – 377 battute in luogo delle 268 della seconda e definitiva redazione – affronta in maniera più nitida e lucida l’annoso problema del ‘disgelo’ della principessa cinese. Al centro si pone infatti da un lato la lunga riflessione della protagonista, che sembra quasi risvegliarsi al mondo dopo il bacio ‘subìto’ dal principe ignoto; dall’altro la perorazione di questi sembra improvvisamente farle comprendere il valore, il senso, il peso dell’amore, tanto da riscattarne la crudeltà pregressa e farle finalmente decidere – innanzi al padre e al popolo di Pekino – di impalmare il coraggioso pretendente. Ascoltando questa versione si colgono – più e meglio che nella seconda – riferimenti lontani, come il risveglio di Brünnhilde, al termine di Siegfried, vinta dall’amore tanto da rinunciare allo statuto divino per accogliere quello umano; ma anche una ricerca idiomatica, che percorre i primi anni Venti del Novecento, legata a un orientalismo che Alfano coltiva sin dalla Leggenda di Sakuntala, e che mirava a un rinnovamento antropologico ed etico, prima ancora che musicale e drammaturgico: con tutte le conseguenze che presto sarebbero state tristemente evidenti con l’avvento del nuovo regime. Scegliere il primo finale di Alfano significa dunque precipitare in echi wagneriani, ma allo stesso tempo in una scrittura distinta e distante da quella pucciniana (non a caso Toscanini lo valutò sostenendo che c’era «Troppo Alfano e troppo poco Puccini»), un po’ come avrebbe fatto anche Berio, settant’anni più tardi, nel segno di una discontinuità palese ed evidente.

È assai probabile che questa scelta, d’indubbio interesse, ricada in capo alla compatta direzione di Carlo Goldstein, che certo non si preoccupa di squadernare nuovi orizzonti interpretativi, ma che almeno risulta di sicura efficacia. È agile, spedita, senza intoppi, e soprattutto riesce a valorizzare al meglio una compagine orchestrale in forma smagliante, reattiva in tutte le sezioni, pronta a mettere in luce le innumerevoli preziosità timbriche di una tra le più ricche partiture del primo Novecento. Accompagna con destrezza il palcoscenico, ma soprattutto si giova di una presenza corale – cui presiede la direzione di Salvatore Punturo – che percorre la vasta gamma di oscillanti sentimenti del coro grazie a una ricerca di colori e di atmosfere declinate nel corso dei tre atti. Il gusto della cantabilità cede il passo allo slancio, alla robustezza, a una densità delle trame sonore che trova nel primo finale di Alfano un vertice di inusitata potenza sonora.

Da sinistra: Alessio Arduini, Ewa Płonka, Martin Muehle – Photo: Rosellina Garbo.

Certo questo autentico muro di suono mette alla prova la resistenza di ben due compagnie, che si alternano nel corso delle numerose recite dell’opera, accolte con grande fervore di pubblico. La prima è capeggiata dalla Turandot di Ewa Płonka, che padroneggia senza alcuna difficoltà l’ardua scrittura vocale, ma emerge maggiormente nei passaggi lirici («Principessa Lo-u-Ling») in cui piega uno strumento vigoroso a un suggestivo gioco di sfumature. Affronta in maniera spavalda la scena degli enigmi, accanto al vigoroso Calaf di Martin Muehle, che amministra con giudizio un timbro non proprio ammaliante, ma saldo nell’emissione, vigoroso nel registro acuto, proiettato con indubbia esperienza. In entrambi i casi, rimane l’idea che un maggior scavo dei personaggi avrebbe forse avvantaggiato i rispettivi ruoli: la differenza si nota infatti all’ascolto della giovanissima Liù di Juliana Grigoryan, splendida nell’uso sapiente delle mezze voci, in crescendo nel corso dell’ultimo atto, che la vede trionfatrice dopo un «Tu, che di gel sei cinta» levigato con morbida poesia. Spesso Liù ha gioco facile nel conquistare la ribalta, ma nel caso dell’artista armena risulta evidente la cura delle dinamiche, che contribuiscono a dare spessore al personaggio. Di alto profilo il Timur di Giorgi Manoshvili, robusto e autorevole.

Ewa Vesin e Angelo Villari – Photo: Franco Lannino.

La distribuzione alternativa è focalizzata sulla presenza di Ewa Vesin, per certi aspetti anche più convincente della collega. All’indubbio fascino della presenza scenica – finalmente una Turandot attraente, capace di rendere meno improbabile l’orrido soprabito piumato alla Papagena del terzo atto – si aggiunge infatti un ragguardevole tonnellaggio vocale, caratteristiche tali da farne un’interprete particolarmente persuasiva. Tutto questo l’aiuta non soltanto nella grande scena degli enigmi, ma soprattutto nel finale di Alfano, che dipana con invidiabile ricerca dei colori, delle sfumature, degli accenti. Risulta il perno dello spettacolo, anche per l’innegabile impatto della sua prova: un effetto che, ahimè, non sempre si riscontra nei colleghi. Angelo Villari vanta, dalla sua, una solidità e una potenza di emissione ragguardevole, unita a uno strumento di rara bellezza: doti tali da farne, sulla carta, un Calaf d’eccezione, se solo si ricordasse che sulla scena bisogna anche – o soprattutto – dare un senso a ciò che si canta: la genericità del suo «Nessun dorma» costituisce forse la sintesi migliore di una generosità che non trova adeguato riscontro interpretativo. Anche la Liù di Jessica Nuccio è attenta alla linea vocale, alla realizzazione di filature eteree e impalpabili, a una ricerca del legato d’impronta chiaramente belcantista: ma è come se vivesse chiusa nel suo mondo, più e peggio di Turandot, ben lontana dall’esprimere la ricca gamma di sentimenti della schiava. Si disimpegna con zelo il Timur di Jerzy Butryn, anche se con qualche rugosità timbrica.

Jessica Nuccio – Photo: Rosellina Garbo.

Guadagna gli applausi dopo il vecchio re spodestato il terzetto delle maschere, presenza calamitante nel corso dello spettacolo in punto scenico – ma anche, va sottolineato, sotto il profilo vocale. Alessio Arduini (Ping), Matteo Mezzaro (Pong) e Blagoj Nacoski (Pang) sono brillanti, cinici e irriverenti, ma soprattutto compongono un assieme perfettamente affiatato, con una precisione ritmica che è la base di un’esecuzione pertinente, sempre incalzante e incisiva. E se viene messa in adeguato risalto anche la parte più nostalgica («Ho una casa nell’Honan» trasuda di molli iridescenze), si rimane piacevolmente sorpresi – se non palesemente divertiti – dalla fine del terzetto («Non v’è in Cina, per nostra fortuna») in odor di café chantant, nelle movenze in perfetta sincronia come nell’eleganza delle vaporose linee vocali. Completano il cast il saldo Mandarino di Luciano Roberti e l’Altoum chiarissimo – e spesso pericolosamente incline a una sorta di singolare Sprechgesang – di Cristiano Olivieri.

C’è tanta carne al fuoco nella nuova produzione firmata da Alessandro Talevi, due idee su tutte – non sempre e non certo originali. La prima riguarda la separazione dei piani tra i personaggi principali e il coro, che si muove all’interno di un labirinto che ne limita gli interventi. È una massa grigia e informe, segue opinioni contraddittorie e contrastanti, ma poi rimane irretito dallo sfarzo della corte (Altoum e Turandot indossano sontuosi abiti regali, degni di una monarchia asiatica del Dopoguerra), umiliato dalle intimidazioni di ministri dai tratti palesemente mafiosi, ridotto al silenzio da un manipolo di soldati che evocano l’esercito di terracotta dell’imperatore Qin a Xi’an. A questo si aggiunge l’inevitabile approfondimento psicologico sulle violenze (infantili?) subite da Turandot, a immagine di quelle dell’ava Lo-u-Ling: da qui l’inesorabile terzetto di cloni della principessa (una bambina e due ragazze dagli abiti bruttati di sangue) che accompagnano la scena degli enigmi; ma anche l’inedita soluzione di vedere lo spirito di Liù torreggiare in cima al mausoleo dell’ava, al termine dell’azione, forse appagata dal risultato raggiunto. La scena unica di Anna Bonomelli, opportunamente valorizzata dall’accorto disegno luci di Marco Giusti, permette di focalizzare l’attenzione sui differenti ‘ambienti’ in cui si svolge l’opera: il proscenio, dal pavimento a specchio, in cui trovano riparo gli schiavi, rotolano le tre maschere, impone il suo volere la tirannica principessa; il sepolcro dell’ava, a corte, imperitura memoria di una presenza sempre viva e inquietante; e uno sfondo genericamente fiabesco, sul quale nel primo atto sorge anche una luna dal sembiante umano, come quella del celeberrimo Voyage dei fratelli Méliès. Sfarzo e momenti di ripiegamento elegiaco si alternano così in una concezione che approfondisce l’uso degli spazi ma non individua una visione organica d’insieme, acuita dall’eterogeneità di riferimenti che spaziano dalla dimensione atemporale del coro alla squillante contemporaneità delle maschere. E si rimpiange un po’ che la «Pekino, al tempo delle favole», non abbia suggerito letture, prospettive, soluzioni più coerenti e intriganti.

Teatro Massimo – Opere e Balletti 2023/24
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Ewa Płonka – Ewa Vesin
Altoum Cristiano Olivieri
Timur Giorgi Manoshvili – Jerzy Butryn
Calaf Martin Muehle – Angelo Villari
Liù Juliana Grigoryan – Jessica Nuccio
Ping Alessio Arduini
Pong Matteo Mezzaro
Pang Blagoj Nacoski
Un mandarino Luciano Roberti
Il principino di Persia Matteo Mezzaro
Prima ancella Gabriella Barresi – Cecilia Galbo
Seconda ancella Lorena Scarlata – Maria Luisa Aleccio
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Carlo Goldstein
Maestro del coro Salvatore Punturo
Regia Alessandro Talevi
Scene e costumi Anna Bonomelli
Luci Marco Giusti
Maestro d’armi Ran Arthur Braun
Nuovo allestimento
Palermo, 26 e 27 settembre 2024

Giuseppe Montemagno

Fonte: connessiallopera.it

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