“Dare ai sommi, ai geni tutelari della patria una tribuna che essi non hanno”. Antonio Alberti, avvocato, antifascista cattolico, poi vice presidente del Senato, sintetizzava così in Assemblea costituente il senso dell’istituto del senatore a vita. Da allora, la norma poi inserita nell’articolo 59 della Costituzione non ha mai smesso di far discutere. Adesso, la riforma costituzionale del governo Meloni ha detto stop: niente più senatori a vita.
E’ difficile non trovare polemiche, dibattiti, botta e risposta anche accesi sull’articolo 59. Subito, il dubbio nasce sul numero di senatori a vita che si potevano nominare complessivamente. Luigi Einaudi, per esempio, ne indica 8 compresi Toscanini, Trilussa e Sturzo. Oscar Luigi Scalfaro, testimone del dibattito in Assemblea costituente, non ne nomina nessuno: “La norma costituzionale indica nel numero massimo di cinque”, spiega. Giovanni Gronchi è invece il primo a ‘allargare’ il senso della Costituzione oltre il “campo sociale, scientifico, artistico e letterario” e sceglie un politico, l’ex presidente del Senato Giuseppe Paratore.
Quando tocca a Sandro Pertini, come spesso accadde per il presidente con la pipa, il Quirinale non vuole imposizioni: Pertini chiede un parere al Senato, allora guidato da Francesco Cossiga, e indica comunque 5 nomi (Valiani, De Filippo, Ravera, Bobbio, Bo). E dopo di lui, una volta al Colle, Cossiga fa lo stesso: altre 5 nomine (Spadolini, Agnelli, Andreotti, De Martino e Taviani).
Ma sono di natura politica, più che giuridica, le polemiche più accese che scoppiano attorno alla figura dei senatori a vita. L’esempio più famoso è quello che vede protagonista, ancora una volta, Cossiga. Nel 2006 il governo Prodi ottiene la fiducia anche grazie ai senatori a vita. In aula, al Senato, scoppia l’inferno: fischi, epiteti e commenti molto decisi dai banchi del centrodestra volano verso le ‘personalità’ al momento del voto.
Cossiga prende carta e penna e scrive a Silvio Berlusconi e denuncia una “indegna gazzarra inscenata dai gruppi parlamentari della Casa delle Libertà”. Poi affonda: “Il governo Berlusconi ottenne la fiducia per un solo voto, a garantirla tre senatori a vita: Giovanni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone. Nessuna accusa di immoralità ci fu rivolta né dalla sinistra né… da te!”.
Comunque sia, da allora nel centrodestra si diffonde una diffidenza verso l’istituto dell’articolo 59 della Costituzione, anche nei dibattiti parlamentari, pur se nel corso degli anni non sono mancate iniziative per nominare senatore a vita Silvio Berlusconi o Umberto Bossi. Il ‘peso’ del voto dei “cittadini illustri” ha comunque sempre fatto discutere nelle Camera, dal sì alla fiducia di Agnelli a quello, più recente, di Liliana Segre a favore del governo giallo-rosso guidato da Giuseppe Conte: “Mi accingo a esprimere la fiducia a questo governo”.
Comunque, forse intuendo che oltre all’onore ci sarebbero stati di mezzo troppi oneri, c’è stato anche chi allo scranno ‘a vita’ a palazzo Madama ha rinunciato. “Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa”, scrive Arturo Toscanini a Einaudi nel ’49. Secondo le cronache, due erano già stati i rifiuti del direttore d’orchestra alle proposte del presidente.
L’altro ‘no, grazie’ arriva da Nilde Iotti: “Scrisse a Cossiga una frase sola, due righe appena: ‘Qui sono stata chiamata ripetutamente dai colleghi, e qui resto per rispettarne la volontà’”, come ha ricordato il portavoce e poi biografo della presidente della Camera, Giorgio Frasca Polara. E poi Montanelli, che si rivolge via lettera sempre a Cossiga, che voleva nominarlo: “Ti prego di rinunziare a questo proposito per non mettere me nella spiacevole condizione di un rifiuto…”.