Dire che la causa della siccità è il riscaldamento climatico, ormai chiaramente in atto e conseguente alle emissioni a effetto serra, è una diagnosi giusta ma incompleta e, soprattutto, comoda e deresponsabilizzante: una colpa della nostra epoca di cui nessuno si sente pienamente responsabile. Pertanto, fermi restando (anche se solo a parole) gli impegni assunti a livello internazionale, non si è in grado di immaginare altri strumenti per contrastare le vere cause della siccità e si ripiega sull’adattamento agli effetti del riscaldamento globale.
Da questa analisi discendono le misure prospettate da governo e regioni: stabilire i criteri per dichiarare lo stato di emergenza idrica, al quale legare l’erogazione di finanziamenti per intrappolare con il piano invasi le ultime acque, spingendo fino all’esasperazione l’artificializzazione del ciclo dell’acqua. Si punta dunque sulla realizzazione di nuove infrastrutture per intercettare e trattenere l’acqua dei fiumi (un vero requiem per questi ecosistemi), senza rinunciare ad ambizioni ancor più tecnocratiche: in Toscana, ad esempio, trova nuovo vigore la “politica del tubo”, cioè interconnettere tutti gli acquedotti regionali in un’unica rete (gestita centralmente) per sopperire al deficit idrico di alcune aree grazie al presunto “esubero” di altre. Questa strategia, però, “fa acqua” da tutte le parti. Come ammoniva Einstein, infatti, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato.
In Italia, primo Paese europeo per prelievo di acqua ad uso potabile (428 l/giorno per abitante, di cui circa il 40% sprecato nelle perdite di rete), dare la priorità a nuovi accumuli (anziché alla riduzione dei consumi e, soprattutto, alla eliminazione delle perdite di rete) può essere controproducente poiché favorisce il mantenimento degli sprechi. Lo stesso principio vale per l’agricoltura, i cui consumi potrebbero essere drasticamente ridotti puntando su colture e su sistemi irrigui meno idroesigenti con impianti a goccia in sostituzione di quelli a pioggia.
Se manca l’acqua, perché non seminarla? L’affermazione può sembrare assurda e provocatoria, mentre invece rappresenta la vera soluzione al problema. Le piogge provenienti dall’evaporazione marina cadute sul territorio (il grande ciclo dell’acqua), se assorbite dal suolo, sono poi in gran parte restituite all’atmosfera (per evaporazione e, soprattutto, grazie al “pompaggio” attivo operato dalle piante) e generano nuove piogge, un processo che si ripete più volte (i piccoli cicli) raffrescando il territorio, contrastando le ondate di calore e permettendoci di utilizzare più volte la stessa acqua: in poche parole, aumenta le disponibilità idriche per l’uomo e gli habitat naturali.
Il dilagante incremento dell’urbanizzazione e il progresso tecnocratico dell’idraulica “contro natura” hanno rotto il piccolo ciclo dell’acqua. Grazie all’impermeabilizzazione dei suoli urbani e al drenaggio di quelli agricoli, infatti, gran parte delle acque piovane non viene più assorbita dai suoli ma, incanalata nei fitti reticoli di drenaggio, viene “sparata” nei corsi d’acqua, incrementandone pericolosamente i picchi di piena. Però liberarsi delle acque di pioggia gettandole il più rapidamente possibile a mare non le rende più disponibili per generare cicli di evapotraspirazione e precipitazione: le aree urbane e agricole si inaridiscono sempre più diventando isole di calore. In sintesi, alla siccità derivante dal riscaldamento globale da gas serra si aggiunge la componente derivante dall’impermeabilizzazione e dal drenaggio del territorio. Abbiamo cioè creato una vera “fabbrica della siccità”, diffusa in maniera pervasiva in ogni angolo del pianeta, che tende a impoverire le più importanti riserve d’acqua: le falde acquifere. La secca degli alvei così evidente questa estate è dovuta, nella maggior parte dei casi, proprio ai livelli critici delle falde acquifere.
Tuttavia la mentalità tecnocratica degli enti che progettano “contro la natura” è totalmente refrattaria a tali ragionevoli considerazioni. Ecco che invece sarebbero di grande aiuto le esperienze del progettare assecondando la natura e le guide alle misure di ritenzione naturale delle acque, accomunate dalla finalità di migliorare la capacità di conservazione degli acquiferi, del suolo e degli ecosistemi acquatici.
Per darne un’idea, citiamo solo alcuni tipi di accorgimenti:
- terrazzamento dei pendii collinari;
- vari tipi di microstrutture per la raccolta delle acque piovane sul terreno;
- realizzazione di zone umide artificiali e fossi orizzontali sui pendii;
- restituzione ai corsi d’acqua di ampie aree di piana inondabile;
- barriere vegetate frangipiena;
- rinaturalizzazione dei corsi d’acqua abbattendo argini e muri spondali;
- ripristino a cielo aperto dei canali tombati;
- utilizzo di gore, sfioratori etc. per infiltrare acque nelle aree incolte;
- stagni di ritenzione idrica; realizzazione di letti assorbenti dove recapitare le acque di pioggia;
- sistemi di ricarica delle falde;
- giardini della pioggia (ad esempio depressioni permeabili ai lati delle strade);
- fitodepurazione seguita da infiltrazione;
- pavimentazioni drenanti.
Il principio comune di tali accorgimenti è quello di rallentare il deflusso delle acque in ogni fase del ciclo idrologico, favorirne l’infiltrazione nel suolo e riattivare i piccoli cicli dell’acqua. Operando queste “semine” si otterrebbero abbondanti “raccolti” d’acqua (nuove piogge), contrastando così la siccità.
*Legambiente Versilia
**Legambiente Carrara
***direttore Legambiente Toscana
Questo articolo è un estratto di un approfondimento più ampio che verrà pubblicato prossimamente sul mensile cartaceo di Nuova Ecologia.
autori: di Gilberto Baldaccini, Giuseppe Sansoni e Federico Gasperini
Fonte: La Nuova Ecologia.