Nella storia di Roma Antica, sono due le figure di medico più importanti di cui siamo venuti a conoscenza e che ci hanno lasciato testimonianze in ambito chirurgico: Aulo Cornelio Celso e Galeno di Pergamo.
Il primo visse nel I secolo a.C e nonostante la sua fama non siamo certi che egli abbia effettivamente esercitato come medico; quello di cui siamo sicuri però è la sua opera De Re Medica Libri Octo, il trattato nel quale per la prima volta viene descritta la tecnica e l’utilità della legatura dei vasi (1600 anni prima di Ambroise Parè).
Elemento fondamentale dell’opera, oltre alla descrizione di almeno una cinquantina di strumenti chirurgici e alle istruzioni sul trattamento di emorragie e ferite, è l’enorme importanza che Celso ripone nella chirurgia tra tutte le specialità mediche, elemento che si perderà nei secoli a venire, relegando la figura del chirurgo a poco più di un artigiano specializzato, a cui che si “sporca le mani”, mentre il clinico pontifica.
«Il chirurgo deve essere non lontano dalla giovinezza, avere la mano ferma e rapida, non esitante, e rapida la destra come la sinistra; vista acuta e chiara, aspetto tranquillo e rassicurante, il cui desiderio sia quello di curare il paziente e, a sua volta, non lasciare che le sue grida lo facciano esitare più di quanto non richiedano le circostanze, né tagliare meno del necessario e agire come se fosse indifferente alle urla del paziente»
Galeno, d’altro canto, viene considerato il medico per eccellenza della Storia Romana e nei secoli successivi, tanto che sua influenza, gravata da importanti errori anatomici e fisiologici durò fino al Rinascimento, quando Vesalio, per primo, corresse le sue pecche. Errori che, però, possiamo giustificare, in quanto nell’Impero Romano le autopsie erano proibite, pertanto le sue conoscenze anatomiche potevano fondarsi solamente da quanto poteva apprendere dissezionando animali; nonostante ciò è ricordato per la sue descrizione del nervo laringeo ricorrente, che innerva le corde vocali, garantendone la mobilità e risulta particolarmente importante nel corso degli interventi sulla tiroide, in quanto la sua lesione può causare alterazioni della voce, fino a problemi respiratori.
La sua biografia meriterebbe uno spazio maggiore, ma mi riserverò di trattarla in maniera più completa fra qualche tempo, limitandomi in questo scritto ai suoi contributi in ambito chirurgico
Anch’egli studiò sotto l’influenza greca e come un predestinato nacque nella città del più importante tempo dedicato al Dio Asclepio, a Pergamo nell’anno 129 d.C
Separato da Ippocrate da alcuni secoli, non fu, ovviamente, allievo diretto del grande maestro, ma può essere considerato un membro della scuola ippocratica, avendo studiato con due discepoli di tale scuola: Stratonico e Satiro. Sviluppò inoltre le sue conoscenze, attraverso numerosi viaggi, in particolare presso le scuole mediche di Smirne, Corinto e Alessandria, studiando per dodici anni, prima di fare ritorno a Pergamo, dove lavorò nella scuola dei gladiatori, intraprendendo quella esperienza sul trattamento dei traumi e delle ferite (da lui definite “finestre nel corpo”), che lo accompagnò per tutta la vita.
Questo bagaglio di conoscenze, affinato nei migliori luoghi dell’Impero, dedicati allo studio dell’arte medica, gli permise, una volta giunto a Roma di accrescere la sua fama, fino a diventare il medico personale dell’imperatore Marco Aurelio. Curò anche Lucio Vero, Commodo e Settimio Severo
L’abilità nel trattamento delle ferite dei gladiatori, elevandolo tra i migliori chirurghi e traumatologi della Storia di Roma, ma non si limitò a questo ambito: eseguì con buoni risultati molti interventi, come la rimozione dei polipi nasali e la plastica del labbro leporino.
«La chirurgia è il movimento incessante di mani ferme ed esperienza.»
Il suo lascito, benché gravato da alcuni imprecisioni, non del tutto attribuibili a suoi errori, è di indubbio valore.
Morì intorno all’anno 200 d.C, iscrivendo il suo nome affianco ai più grandi medici dell’antichità.