Home Rubrica LA STELE DI ROSETTA TEUTOBURGO: UN VILE TRADIMENTO SCONFISSE ROMA.

TEUTOBURGO: UN VILE TRADIMENTO SCONFISSE ROMA.

“QUINTILI VARE, LEGIONES REDDE!”, URLAVA AUGUSTO MENTRE SI AGGIRAVA DI NOTTE NEL SUO PALAZZO SUL PALATINO IN PREDA AD UNA PROFONDA DEPRESSIONE. IL DISASTRO DI TEUTOBURGO FU IN EFFETTI UNA DELLE PIU’ GRANDI E TREMENDE SCONFITTE DELL’IMPERO CHE CAMBIO’ RADICALMENTE IL DESTINO DELL’EUROPA CENTRALE. E ARMINIO, IL TRADITORE, NON È L’EROE CHE LA NARRAZIONE COMUNE VUOL FAR CREDERE.

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I superstiti combattono ancora con la forza della disperazione, confidando negli dèi e negli antenati. Ma i nemici barbari arrivano da tutte le parti e colpiscono i Romani senza pietà: per loro è una straordinaria occasione, quella di massacrare i soldati dell’odiato Impero dopo averli messi in trappola in mezzo ai boschi, dove non possono manovrare e dispiegare così la loro efficace potenza a viso aperto. Ma loro, i Cherusci, no. Non hanno il coraggio di affrontare lealmente i nemici e si accaniscono sui cadaveri dei soldati tagliando teste e mani senza fare prigionieri. Lo strazio dura quattro giorni, durante i quali ogni forma di crudeltà si manifesta violenta. Alla fine, un ufficiale, Cassio Cherea, dopo il suicidio del comandante e del suo Stato Maggiore, riorganizza i laceri, sporchi ed impolverati sbandati e riesce a rompere l’accerchiamento. Tutti gli altri vengono massacrati. Termina così, con la distruzione di tre legioni romane, una delle più sanguinose battaglie dell’antichità, quella combattuta nella selva di Teutoburgo. Come si è potuti giungere a tale catastrofe?

Il contesto storico

Questo grave episodio della storia di Roma si inserisce nel più ampio quadro della conquista della Germania. Durante le guerre che seguirono la morte di Cesare, le incursioni dei Germani nella Gallia erano diventate sempre più moleste, sicché Augusto decise di sottomettere l’intero paese. Nel 38 a.C., spedito in Renania il suo genero Agrippa, insediò sulla riva destra del Reno, dove ora si trova la città di Colonia, la tribù degli Ubii. Essi erano domati da tre anni quando, attraversato il Reno, i Sugambri misero la colonia a ferro e fuoco. Raccogliendo la sfida, Augusto accorse di persona in Renania e vi trascorse tre anni durante i quali mise a punto un piano per spingere la frontiera fino all’Elba, annientando le tribù stabilitesi tra questo fiume e il Reno. Per facilitare il movimento delle truppe, Agrippa fu incaricato di gettare sulle due rive del grande fiume una rete di strade. Quando egli morì nel 12 a.C., il comando delle legioni passò a Druso, figlio adottivo di Augusto, all’epoca accampato sulle rive del fiume Lippe. Il suo piano per arrivare all’Elba prevedeva l’avanzata di fiume in fiume. Scavando la Fossa Drusi, e collegandola col Reno e i laghi dello Zuiderzee (un golfo negli attuali Paesi Bassi, lungo le coste del Mare del Nord), le sue legioni permisero alla flotta romana di entrare nel Mare del Nord. Raggiunta l’Elba tre anni dopo, Druso fece erigere sulle sue rive un trofeo. Senonché, per uno di quegli innumerevoli casi di cui è costellata la Storia, casi che ne mutano il corso e creano una nuova linea temporale, Druso, ferito ad una gamba, morì di cancrena a Magonza. La sua morte non fermò l’avanzata delle legioni romane verso l’Elba (raggiunta sì, ma non conquistata). Il quartier generale delle operazioni fu spostato a Vetera, sulla collina di Fürstenberg sul basso Reno e il comando delle legioni fu affidato a Quintilio Varo. Del suo Stato Maggiore faceva parte anche Arminio, il traditore. Conosciamoli meglio.

I protagonisti: Quintilio Varo…

Di nobile gens decaduta, Varo riuscì ad intraprendere la carriera politica grazie al favore di Augusto. L’imperatore gli aveva consentito di salire i gradini del cursus honorum, dove Quintilio aveva espresso grandi capacità e sagacia. Augusto lo accolse addirittura nella sua famiglia dandogli in sposa la figlia del suo genero Agrippa. Nel 22 a.C. Varo accompagnò l’imperatore nel corso del suo viaggio in Oriente. Console nel 13 a.C., divenne proconsole in Africa e, più tardi, legatus Augusti pro praetore in Siria. Nel 7 d.C., fu inviato come governatore in Germania.

…la XVII, XVIII e XIX legione…

Le tre legioni che saranno distrutte a Teutoburgo furono probabilmente reclutate da Ottaviano nel 41 o 40 a.C. dopo la battaglia di Filippi per combattere contro Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno. La XVIII legione sembra ricevette in cambio, come congedo dei veterani, delle terre in Veneto. Negli anni successivi, la legione XVII fu stanziata forse in Alsazia, spostata poi sul basso corso del Reno insieme alla XVI Gallica e alla XVIII. Partecipò alle campagne germaniche di Druso Maggiore (13-9 a.C.) e di Tiberio (8 a.C. e 4-5 d.C.) ed alla repressione della rivolta in Pannonia. La XIX, invece, partecipò alla conquista della Rezia, territorio alpino a ovest dell’Italia, intorno al 15 a.C., mentre rimase di stanza a Dangstetten, lungo l’alto corso del Reno.

ed Arminio

Irmin era figlio di un capo cherusco. Fu inviato a Roma per essere educato. Era una prassi comune: i figli dei capi tribù o regnanti venivano portati nella capitale, mandati a scuola e ambientati nell’Impero dove venivano qualificati nella vita che preferivano. In genere si dedicavano alla guerra seguendo un cursus honorum che permetteva loro una buona collocazione sociale. Questa strategia faceva sì che i figli dei capi stranieri prendessero in simpatia la dolce vita dei Romani e non macchinassero contro l’Impero ma che anzi ne divenissero alleati. Irmin, latinizzato in Arminio, servì nell’esercito romano, prima probabilmente sotto Tiberio in Germania, poi trasferito in Pannonia, come luogotenente di cavalleria, combatté coi Romani nella rivolta dalmato-pannonica, guidando un contingente di truppe ausiliarie cherusce. Ottenuta anche la cittadinanza romana, attorno al 7-8, Arminio tornò nella Germania settentrionale, dove i Romani avevano conquistato i territori compresi tra il fiume Reno ed Elba, governati da Quintilio Varo. Arminio si guadagnò l’amicizia dei suoi compagni, il rispetto dei suoi sottoposti e la stima dei suoi superiori. E anche quella di Varo, che si legò a lui con grande affetto, conquistandone la fiducia al punto tale che il governatore non ascoltò le accuse di tradimento del suo entourage romano che sospettava di lui ma anzi lo promosse come suo consigliere militare. Ma Arminio faceva il doppio gioco. Mentre manteneva il suo incarico di ufficiale della Legione, in segreto complottava per unire sotto la sua guida diverse tribù di Germani per impedire ai Romani di realizzare i loro progetti. E soprattutto, desiderava creare un potentato personale.

Arriva il fatidico 9 d.C.

Com’era consuetudine nelle terre di recente incorporazione, il governatore eseguiva delle spedizioni periodiche con l’obiettivo di affermare il potere romano e di stabilire il nuovo sistema amministrativo. Durante la primavera dell’anno 9, Varo organizzò le sue forze per iniziare una campagna che lo avrebbe tenuto occupato tutta l’estate e l’avrebbe portato fino alle terre dei Cherusci. Si trattava di una missione di routine nella quale, oltre a riscuotere le imposte e ad amministrare la giustizia, avrebbe passato in rassegna e integrato le guarnigioni situate sull’altra sponda del Reno. Inoltre, ove necessario, avrebbe intrapreso azioni punitive nei confronti delle tribù più restie al dominio romano. In teoria, si trattava di un compito di carattere prevalentemente amministrativo e non di una spedizione militare, una ricognizione per analizzare il territorio ed entrare in contatto con le tribù barbare locali, tant’è vero che oltre alle legioni viaggiavano anche migliaia di civili (funzionari, artigiani, mercanti, donne e bambini).

La partenza

Le truppe partirono dall’accampamento di Vetera (l’attuale Xanten, a nord della Germania) ed erano composte da tre legioni a ranghi completi – la XVII, XVIII e XIX – oltre a sei coorti di truppe ausiliarie di fanteria e forse anche da tre ali ausiliarie di cavalleria. Varo disponeva, in totale, di poco più di 17.000 combattenti, una cifra che andò diminuendo a mano a mano che le truppe si distribuivano nelle distinte guarnigioni disposte lungo il percorso. Insieme ai contingenti militari marciavano, come abbiamo detto, numerosi civili: tra i 3.500 e i 4.000, tra i quali anche le mogli e i figli dei soldati, una miriade di servitori e gente di ogni tipo che viveva all’ombra dell’esercito. Il tragitto per penetrare nelle terre germaniche fu quello abituale: una volta attraversato il Reno, la colonna sarebbe entrata nella vallata del fiume Lippe per poi dirigersi a est, verso la terra dei Cherusci, dove avrebbe stabilito la base per l’estate. Terminate le operazioni, nel settembre dell’anno 9 l’esercito partì verso i campi invernali seguendo a ritroso il percorso precedente.

Il tradimento

Durante il tragitto di ritorno, Varo ricevette la notizia della rivolta di una tribù del nord della Germania: ma si trattava di una falsa notizia creata da Arminio per indurre il governatore a cambiare percorso per sedare l’inesistente rivolta. In questo modo, il traditore persuase Varo a condurre l’esercito in un territorio fino ad allora mai esplorato, all’interno di una foresta circondata da acquitrini, senza adottare nessun piano e nessuna precauzione. Così Arminio fece dirigere tre legioni romane dentro la trappola che aveva preparato. Praticamente organizzò entrambi gli eserciti avversari. Infatti, i legionari non solo non furono schierati in assetto di combattimento ma, contro tutte le regole militari romane, furono fatti addentrare in un territorio ostile in normale assetto di marcia e con gli zaini. Tanta era la fiducia che Varo riponeva in Arminio, una fiducia talmente cieca da fargli ignorare gli avvertimenti del filoromano Segeste, suocero di Arminio, che lo aveva informato dell’agguato. In molti si sono chiesti come sia stato possibile che un anziano generale si fosse lasciato imbottigliare da un giovane straniero, ponendosi addirittura nelle sue mani. Le malelingue hanno anche ipotizzato che il sentimento che Varo nutriva verso Arminio non fosse proprio paterno… In tanti sospettavano che il fidato consigliere del governatore fosse un doppiogiochista, ma furono fatti tacere con sdegno, non furono ascoltati altrimenti la Storia avrebbe preso una piega diversa. Ma tant’è…

L’imboscata

Arminio si staccò con una parte dei suoi cavalieri con il pretesto di cercare rinforzi per aiutare Varo a contrastare la falsa rivolta. In realtà egli aveva intenzione di riunirsi all’esercito che aveva messo insieme: si calcola che esso contasse sui 20-25.000 uomini provenienti da diverse tribù, tra le quali c’erano gli Angrivari e i Bructeri. Queste forze erano numericamente superiori a quelle romane anche se meno omogenee dal punto di vista militare.

L’8 settembre del 9 d.C. i Romani entrarono nella foresta di Teutoburgo (l’odierna località di Kalkriese, nella Bassa Sassonia), talmente intricata da ridurre la visibilità, oltre a presentare molti ostacoli che obbligarono a rallentare il ritmo di marcia e allungare notevolmente di oltre 3 km e mezzo la colonna, facendo crescere la distanza tra l’avanguardia e la retroguardia.

Arminio aveva predisposto con estrema cura tutti i dettagli dell’imboscata: aveva scelto il luogo dell’agguato, vale a dire il punto in cui la grande palude a nord si avvicinava di più alla collina calcarea di Kalkriese, e dove il passaggio era ristretto a soli 80-120 metri; aveva fatto deviare il normale tracciato della strada con lo scopo di condurre l’esercito romano in un imbuto senza uscita; aveva fatto costruire un terrapieno (lungo circa 500-600 metri e largo 4-5) dietro cui nascondere parte delle sue truppe, lungo i fianchi della collina del Kalkriese, da cui potevano attaccare il fianco sinistro delle legioni. Da notare che tale tecnica l’aveva imparata dai Romani.

Inizia il massacro

Mentre la lunga colonna romana avanzava faticosamente, ecco che all’improvviso, da entrambi i lati, due grossi contingenti di Germani, prevalentemente Cherusci, insieme agli altri alleati, cominciarono ad investire con sassi, frecce, giavellotti ed ogni tipo di arma tutte le legioni che furono colpite da una pioggia di dardi e ferro tremenda e terribile. Dal momento che i Germani erano protetti dal terrapieno, i Romani non potevano rispondere adeguatamente e cominciarono ad essere decimati da questi devastanti lanci.

Dopo questo primo attacco, arrivò da uno dei due lati una lunga linea di Germani che investirono i Romani, già disorientati ed indeboliti, cominciando a falcidiarli in maniera micidiale. Questo primo, devastante attacco, ridusse sensibilmente i ranghi romani. Dopodiché i Germani si ritirarono e scomparirono nel profondo della foresta. Alla fine della giornata, dopo le molte perdite subite, Varo cercò di riorganizzare un esercito traumatizzato, accampandosi in una zona favorevole, per quanto fosse possibile, su un’altura boscosa. Qui tenne un consiglio di guerra per cercare di capire cosa fare. Furono prese due decisioni: la prima, anche se drammatica, fu quella di lasciare all’interno dell’accampamento i feriti. La seconda fu quella di scaricare le armi più pesanti e tutti i bagagli per cercare di aumentare la propria velocità e uscire dalla foresta il prima possibile per tentare di raggiungere l’accampamento militare più vicino.

Il secondo giorno (sì, perché la battaglia di Teutoburgo non durò mezz’ora ma tre giorni e fu composta da una serie di diversi combattimenti), dopo essersi riposati, i Romani bruciarono dunque i carri con la maggior parte dei bagagli per non lasciarli al nemico e continuarono la marcia, provando ad avvicinarsi all’accampamento di Castra Vetera sul Reno, dove forse il legato Asprenate avrebbe potuto raggiungerli e salvarli. Purtroppo, la notte prima era caduta una pioggia pesante e scrosciante che aveva trasformato il terreno in un pantano fangoso che avvinghiò i legionari, rallentandoli. Anche se in tali condizioni, i Romani avanzarono disposti in schieramenti più ordinati, pronti a fronteggiare un nuovo assalto. Tuttavia, anziché offrire uno scontro frontale, i Germani rimasero dietro la copertura del loro vallo protettivo, scagliando nuovamente dardi e giavellotti. La maggior parte dei soldati si ranicchiò dietro gli scudi mentre alcune coorti, non volendo rimanere quali bersagli passivi, avanzarono sulle posizioni dei Germani. La maggior parte di questi assalti privi di supporto vennero facilmente respinti, ma alcuni riuscirono a fare breccia, solo per poi essere sopraffatti dalle migliaia di barbari in attesa dietro il vallo. Come la coesione romana iniziò a collassare, Arminio scatenò i suoi guerrieri sulle legioni vacillanti. Caddero in migliaia. Le perdite dei Germani devono essere state maggiori, ma essi erano continuamente rinforzati durante tutto il giorno, mentre i Romani, ancora distanti cento miglia dalla loro fortezza, disperavano di poter essere aiutati. L’attacco alla colonna dei legionari aveva lo scopo di impedire loro di raggiungere il campo aperto dove, riorganizzati e schierati, avrebbero sicuramente vinto. Arminio, invece, li tenne bloccati nella foresta, dove non potevano manovrare.

Il terzo giorno fu l’ultimo atto della tragedia. Di tutto l’esercito romano rimasero tre contingenti minori e per di più distanziati gli uni dagli altri. Esposti a pioggia e vento battenti, facevano fatica a brandire le armi. Fu costruito un secondo accampamento dove fu tenuto un disperato consiglio di guerra. Un comandante di cavalleria, Numonio Vala, prese alcuni dei pochissimi cavalieri rimasti cercando di scappare verso nord, attraversando addirittura un ponte, forse per tentare di trovare dei rinforzi. Ma Arminio, che probabilmente lo aveva calcolato, fece attaccare dai due lati il manipolo di cavalleria che venne così massacrato. Sfumando così anche l’ultimo possibile tentativo di chiamare aiuti e resisi conto della situazione, Publio Quintilio Varo e i suoi principali ufficiali decisero di suicidarsi per non cadere vivi nelle mani dei nemici. Velleio Patercolo, nella “Storia Romana” scrive: “…(Quintilio Varo) si mostrò più coraggioso nell’uccidersi che nel combattere…e si trafisse con la spada…”. Non appena si diffuse la notizia, molti soldati romani smisero di combattere, preferendo fuggire o uccidersi per non venire catturati. La maggior parte dei legionari fu uccisa senza potersi difendere. Pochi riuscirono a fuggire per raccontare l’accaduto. Le tre aquile, emblema delle legioni distrutte, furono la parte più ambita del bottino di guerra. Il racconto che le fonti tramandano del massacro e di ciò che i Germani fecero ai prigionieri romani è talmente cruento che preferiamo risparmiare ai lettori i particolari più raccapriccianti. Ma si può dire che i druidi sacrificarono su altari improvvisati alle divinità locali tutti coloro che venivano catturati. I sopravvissuti vennero torturati prima di essere impiccati o arsi vivi. Le loro teste vennero inchiodate ad alberi e i teschi portati a casa come trofeo. I cadaveri furono lasciati insepolti ed esposti per essere oltraggiati nei tempi successivi. La foresta divenne quindi un tempio a cielo aperto per poter celebrare la vittoria contro i Romani, continuando ad usare vilipendio sulle povere ossa dei soldati caduti.

Nei giorni tra l’8 e l’11 settembre del 9 d.C. tre legioni a ranghi completi, la XVII, XVIII e XIX, vennero completamente spazzate via. Il più potente, efficiente e micidiale esercito dell’antichità conobbe una delle più colossali disfatte della storia dell’Impero, conosciuta da allora come la Clades Variana (“la disfatta di Varo”). Un decimo della potenza militare di Roma dell’epoca non esisteva più! Gli imperatori romani che si susseguirono nei secoli decisero che le nuove legioni non avrebbero preso il nome delle tre sfortunate annientate in quella maledetta foresta, in segno di rispetto.

La reazione di Augusto

La notizia del disastro sconvolse non solo i Romani, abituati alle continue vittorie, ma anche Augusto, ormai anziano e debole, che da allora non volle più Germani accanto a sé. Scrive Svetonio: “Quando giunse la notizia…dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”. Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza.”

Cassio Dione Cocceiano scrive: “…Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l’Italia e la stessa Roma.”

…Augusto poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani…nella Guardia Pretoriana…temendo che potessero insorgere…li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città…”

Perdere il controllo della provincia germanica non rappresentò solo una grave sconfitta militare ma anche una disfatta sotto l’aspetto della propaganda. La propaganda politica di Augusto si nutriva, tra le tante cose, anche delle grandi conquiste in Germania: perdere quindi questo dominio fu un enorme danno di immagine per l’imperatore, un uomo ormai anziano e stremato dal potere, che si dice morì disperato nella paura di un’invasione germanica.

Le aquile perdute e la vendetta di Roma

La sconfitta di Teutoburgo, per quanto catastrofica, non metteva comunque a rischio l’esistenza dell’Impero. Nel 14 Augusto morì e gli succedette Tiberio, che consentì a Germanico, figlio dello scomparso fratello Druso, di compiere tre nuove campagne nel territorio dei Germani, dal 14 al 16. Gli vennero quindi affidate ben 8 legioni (!) oltre alle truppe ausiliarie, per lavare l’onta delle tre aquile legionarie sottratte nella battaglia di Teutoburgo. Di queste, una fu trovata da un soldato di Germanico, che ritrovò l’aquila della Legio XIX, recuperandola dai Bructeri nel 15; la seconda aquila venne ritrovata interrogando il capo dei Marsi fatto prigioniero dopo la battaglia di Idistaviso nel 16. Germanico non riuscì invece a recuperare la terza aquila, che venne ritrovata solo nel 41 da Publio Gabinio presso i Cauci, al tempo dell’imperatore Claudio, fratello di Germanico.

Non ci si deve stupire che un esercito si muova per recuperare i vessilli delle legioni. Bisogna comprendere il pensiero romano dell’epoca: l’aquila era il simbolo di Roma. Rappresentava Giove, protettore dello Stato romano. Fungeva da emblema del potere di Roma e del suo Impero e nessuno poteva vantarsi di averla strappata a una legione. O poteva, ma l’avrebbe pagato caro. L’onore di Roma era legato anche a queste insegne e nessun romano si sarebbe sentito tranquillo finché esse non fossero tornate in patria. Tutti gli stranieri conoscevano il valore delle aquile e averle era un grande segno di potere, perché significava aver sconfitto Roma. Per questo le aquile dovevano tornare a casa. Il concetto è ben descritto in un film del 2011, “The Eagle”, che consiglio a tutti di vedere.

Tra il 14 e il 16 le armate romane guidate da Germanico devastarono la Germania e sconfissero Arminio e le sue tribù alleate. Nel 16, infatti, il traditore fu sconfitto in due battaglie presso il fiume Weser: prima nella piana di Idistaviso e subito dopo di fronte al Vallo degli Angrivari.

Arminio sembrava ormai totalmente sconfitto quando Germanico venne richiamato a Roma da Tiberio. Qualcuno pensò per invidia, altri per rispetto dei consigli di Augusto (il quale nel suo testamento ufficiale, il Res gestae divi Augusti, formulò un consiglio per il suo successore affinché non intraprendesse altre spedizioni oltre i confini da egli stesso stabiliti, il Reno e il Danubio), ma soprattutto perché la Germania era povera, i bottini scarsi e la sua gente troppo bellicosa. Non ne valeva la pena.

Tuttavia, Tiberio concesse il trionfo a Germanico. Si racconta che durante le celebrazioni sfilarono come prigionieri di guerra anche la moglie e il figlio di Arminio, Thusnelda e Tumelico, oltre a Segimundo, il fratello di lei, davanti allo stesso imperatore Tiberio e al padre della donna, Segeste.

Vessillo delle legioni romane.

Un atto di pietà

Durante la campagna di Germanico, questi ritrovò il sito della battaglia di Teutoburgo. Scrive Tacito: “Nella pianura in mezzo c’erano ossa sbiancate, sparse o in piccoli mucchi, come gli uomini erano caduti, in fuga o in piedi. Accanto a loro lance scheggiate e arti di cavalli, mentre teschi umani erano inchiodati in modo prominente sui tronchi degli alberi. Nei boschi vicini stavano gli altari selvaggi sui quali avevano massacrato i tribuni e i capi centurioni”. Germanico diede ordine di dare pietosa sepoltura ai poveri resti oltraggiati. Delle molte iscrizioni che ricordano il tragico destino di Varo e dei suoi soldati, una delle più famose, trovate nel bacino del Reno, è quella di un centurione, proveniente da Bologna. Su di essa è scritto: “In memoria di Marco Celio, della tribù Lemonia, Bononia. Centurione della Legione XVIII, di 53 anni. Fu ucciso nella guerra di Varo. Suo fratello Publio Celio eresse questo cenotafio”. Sul retro del monumento sono scolpite le sembianze e i nomi dei due servi trucidati con lui: “…portavano i nomi di Privato e Tiamino, ed ora sono stati liberati dalla morte”.

La fine di Arminio

Una volta che i Romani si ritirarono, scoppiò la guerra tra Arminio e Maroboduo, l’altro potente capo germanico dell’epoca, re dei Marcomanni federati di Roma. Sconfitto, il re marcomanno si rifugiò a Ravenna, chiedendo asilo a Tiberio.

Arminio stava cercando di creare un proprio regno personale. Proprio per questo i suoi sudditi, che temevano il suo crescente potere, lo assassinarono nel 19 o 21. Un traditore a sua volta tradito…

Perché Roma non riconquistò la Germania? Sfatiamo un mito

La Clades Variana, considerata una delle più grandi disfatte subite dall’Impero fece rinunciare ad Augusto e ai suoi successori la riconquista dei territori compresi tra il Reno e il fiume Elba. Perché Roma, dopo essersi vendicata con le due grandi battaglie contro Arminio non ha poi riconquistato tutta la Germania? Iniziamo con lo sfatare un mito. Non fu assolutamente per un problema militare, ossia non è che Roma non avesse la forza di riconquistare la Germania: le vittorie conseguite ne furono la prova. Inoltre, in seguito sotto Nerone, uno dei suoi generali, Gneo Domizio Corbulone, tornò nuovamente in Germania e lo fece quando e come volle. Arrivò fino quasi alla Danimarca senza incontrare particolari problemi. E anche nei secoli successivi, tutte le volte che i Romani avevano bisogno di forza lavoro, si recavano nel profondo dei territori germanici, combattevano contro le tribù, le sconfiggevano e le deportavano all’interno dell’Impero. In pratica, Roma utilizzava la Germania come un serbatoio a proprio piacimento. La rinuncia ai territori fu quindi di natura geopolitica: riconquistare da capo la Germania, far ripartire il processo di romanizzazione, ripetere tutto dall’inizio, avrebbe comportato più costi che benefici. Per civilizzare nuovamente la Germania ci sarebbero voluti dai 100 ai 150 anni! Il suo territorio era inoltre ricoperto da foreste ed acquitrini, con poche materie prime: il gioco non valeva la candela.

Fu per questi motivi che i Romani adottarono un metodo meno costoso, quale stabilire la sicurezza dei confini col fiume Reno e la sicurezza del territorio con i protettorati, ossia insediare dei re di proprio gradimento a capo delle tribù germaniche per creare degli Stati-cuscinetto con le zone più settentrionali.

Il Reno segnò così per secoli il confine tra l’Impero e il mondo barbarico, ciò che creò la suddivisione Latino-Germanica che persiste ancora oggi in Europa occidentale, le cui popolazioni non avrebbero più parlato una lingua romanza. I Romani si stupirono che si potesse scegliere di restare presso un popolo barbaro e sanguinario piuttosto che diventare agiato in un contesto civile come quello di Roma. E anche noi facciamo fatica a capirlo, visto che la vera tirannia non era quella romana ma quella dei capi tribù che avevano diritto di vita e di morte su tutti i membri della tribù stessa, che a loro volta avevano diritto di vita e di morte su mogli e figli. Ma ognuno è libero di farsi del male come crede.

Lapide di Marco Celio ucciso a Teotoburgo.

Cosa ci ha restituito l’archeologia?

Nella località di Kalkriese, a 135 km a nord-est del confine romano del Reno, fu trovato del materiale archeologico. Il sito, identificato come l’area della battaglia, si estende su una superficie di 5 per 6 km e ha restituito oltre 4.000 oggetti di epoca romana. Furono trovati 3.100 pezzi militari come parti di spade, pugnali, punte di lance e frecce, proiettili utilizzati dalle fionde delle truppe ausiliarie romane, dardi per catapulte, parti di elmi, parti di scudi, una maschera da parata in ferro ricoperta di argento, chiodi di ferro delle calzature dei legionari, piccozze, falcetti, vestiario, bardature di cavalli e muli, strumenti chirurgici; un limitato numero di oggetti femminili come forcine, spille e fermagli a testimonianza della presenza di donne tra le file dell’esercito romano in marcia; 1.200 monete, coniate tutte prima del 14; numerosi frammenti ossei di uomini e animali (muli e cavalli); un terrapieno lungo 600 metri e largo 4,5 metri, che si estendeva alla base della collina di Kalkriese in direzione est-ovest, dove i Germani si appostarono aspettando le legioni, dal quale sferrarono il primo attacco, nel punto più stretto tra la collina e la Grande palude (ora ridotta ad una depressione).

L’ultima campagna di scavo, nell’estate del 2016, ha riportato inoltre alla luce altri reperti, tra cui otto rare monete d’oro con l’effigie di Augusto, risalenti a pochi anni prima della battaglia che appartenevano con molta probabilità a un ufficiale dell’esercito che le aveva smarrite o sotterrate nell’imminenza dei combattimenti. Si tratta di una somma notevole per l’epoca: infatti con un solo aureo si poteva mantenere un’intera famiglia, a Roma, per un mese. Quindi la somma equivaleva al sostentamento annuo per un singolo.

Arminio un grande liberatore?

Altro mito da sfatare. Arminio è stato visto come un liberatore. Ma non è affatto così: egli utilizzava la retorica della liberazione dal giogo romano solo come propaganda per farsi seguire dai suoi soldati e dai suoi seguaci, mentre in realtà voleva creare un proprio potentato personale, un regno personale, autonomo e indipendente da Roma, come aveva già fatto Maroboduo. Di per sé sarebbe lecito: è una cosa normale. Non è che solo i Romani avessero il diritto di conquistare, sia chiaro. Ma Arminio non è Giovanna d’Arco o Vercingetorige. Creare un potentato personale è diverso dall’essere un liberatore. L’idea che fosse il liberatore dei Germani e che fosse colui che ha fatto nascere l’orgoglio tedesco è in realtà una propaganda dei secoli successivi, soprattutto quando la Germania, nel corso dell’800-’900, nel conflitto contro la Francia, aveva bisogno di eroi nazionali per incutere un certo timore. Uno che ha teorizzato l’idea di Arminio come liberatore e ispiratore del popolo tedesco risponde al nome di Adolf Hitler che nel suo “Mein Kampf” revisionò e stravolse la Storia e identificò in Arminio colui che fece nascere l’unità e il senso di identità nazionale tedesca. Ma il fatto che egli fu ucciso dai suoi stessi uomini, che non volevano riunirsi come desiderava, smentisce clamorosamente questa favoletta. Arminio sarà anche stato un buon condottiero, ma di certo non era Robin Hood: era, in fondo, solo un vile traditore.

Monumento ad Arminio a Teotoburgo.

A Detmond, nella regione westfalica, si trova l’Hermannsdenkmal, una statua in rame alta 26 metri, eretta tra il 1841 e il 1875, che raffigura proprio Arminio, ancora oggi celebrato come eroe nazionale tedesco. Un eroe che vinse tradendo chi per anni aveva creduto in lui, dal suo capitano ai suoi compagni, che non esitò a far massacrare. Un eroe che non vinse in guerra, ma che vinse perché fu falso e ambizioso. Voleva essere il Cesare dei Germani. Ma Cesare era Cesare e divenne un grande combattendo a viso aperto e non brigando tradimenti e sotterfugi. Arminio aveva combattuto per anni con i Romani, era vissuto a Roma, studiato il diritto romano, ammirato l’arte romana. Un eroe non può essere un traditore. Ne fa testo la grande dignità romana: “…in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all’assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi”. Capite perché Roma era grande? Inoltre, di certo Roma non usava vilipendio contro i cadaveri dei nemici. Ciò che ha reso infame e vile la battaglia di Teutoburgo (oltre al tradimento di un vigliacco quale Arminio fu in realtà), non è stata l’imboscata in sé: l’imboscata è una tattica di guerra. No. Ciò che ha reso la battaglia uno scontro senza onore da parte dei barbari Germani, sono state le loro azioni successive: hanno violentato, torturato, massacrato gli ultimi romani dopo Teutoburgo; hanno utilizzato i soldati agonizzanti per praticare i loro aberranti riti religiosi con i loro sacerdoti che facevano sacrifici umani; hanno lasciato volutamente insepolti i cadaveri dei legionari che i Germani sarebbero andati puntualmente ad insultare. Ecco la grande infamità: creare un bosco pieno di cadaveri di resti romani da sbeffeggiare. I Romani (che hanno anche loro raggiunto livelli alti di violenza) non hanno mai creato dei templi di cadaveri dei nemici. Ciò che facevano era erigere tumuli con le armi sottratte ai vinti, ma non con i loro cadaveri insepolti, cosa gravissima nel mondo antico.

Come nota a margine vi segnalo che anche su Netflix c’è una serie che parla di questi fatti: Barbarians. Mi è stato più volte chiesto cosa ne pensassi. La recensione televisiva non è il mio campo, ma posso dire che dopo i primi episodi ne ho abbandonato la visione. Non per i costumi, ottimi e curati, non per la recitazione, sicuramente di qualità. No: ho abbandonato la visione perché nella serie i Germani vengono dipinti come dei puri pieni di elevati valori, mentre i Romani appaiono come una specie di nazisti. Difficile da digerire. Guardatela pure, se volete farvi del male.

Una mancata civilizzazione

Nel 2009 ricordiamo una giuliva Angela Merkel che esaltava in TV il bimillenario della sconfitta romana. Ma poi, dopo una settimana, la stessa cancelliera mostrava con entusiasmo un piede di marmo e una mascella, dissepolte durante alcuni scavi archeologici. Perché tanto entusiasmo per un piede? Perché evitando l’occupazione romana la Germania non solo ha rinunciato a tanti reperti romani che tutti cercano e valorizzano, ma ha evitato soprattutto che la sua terra si civilizzasse. La Germania è stata privata del diritto, della cultura e dell’arte. Per questa mancanza una parte di questa nazione è rimasta un po’ barbara. Lo si capisce leggendo la storia, dai cavalieri teutonici all’impero austro-ungarico, e alle atrocità dell’ultima guerra, dove si perseguitarono esseri umani solo per questioni di razza pura.

Se la Germania fosse stata civilizzata, forse tante tragedie sarebbero state evitate. Invece, ha scelto di vivere nel falso mito di uno pseudo liberatore in funzione, in fondo, anche antitaliana. E pensare che la Germania fa parte dell’Unione Europea… Concludendo, permettetemi di togliermi un sassolino dalla scarpa: premettendo di non avere nulla contro un’Europa unita (anche se il mostro che è emerso è completamente differente da ciò che si sognava, essendo diventata l’Europa delle banche e non dei cittadini), va ricordato che molti dei Paesi che compongono l’Unione Europea furono provincie romane. Nonostante esibiscano nei confronti del nostro Paese un atteggiamento di spocchiosa superiorità, pretendendo di darci ogni tipo di lezioni non richieste, essi rimangono soggiogati nel più profondo dalla consapevolezza di ciò che l’Italia, nella fattispecie Roma, ha dato loro in passato in termini di civiltà. E non lo accettano. Sarà anche per questo che fanno di tutto per umiliare la nostra grande nazione cercando di strozzarla economicamente. L’Unione Europea è anche la vendetta postuma contro Roma.

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