«Liebe ist fake». Su un muro semicircolare di una periferia urbana qualunque, in mezzo a una serie di graffiti – tra cuori spezzati, la scritta «anger» – campeggia questo singolare proclama. Una ragazza qualsiasi, mentre passeggia indifferente con la cuffia alle orecchie, viene rapita da alcuni terroristi incappucciati. Sono queste le premesse da cui prende le mosse Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart, secondo titolo nel cartellone dedicato a Favole, fiabe e altri racconti… dal Luglio Musicale Trapanese. E, incredibile a dirsi, il capolavoro mozartiano viene eseguito per la prima volta nel capoluogo drepanitano: il che sarebbe, di per sé, una meritevole, doverosa battaglia di civiltà.
Ma cerchiamo di procedere con ordine. Lo spettacolo fa seguito alla XIX edizione del Concorso lirico internazionale “Giuseppe Di Stefano”, svoltasi nell’aprile scorso e finalizzata alla copertura dei ruoli principali dell’opera: ne sono stati vincitori Anastasiia Petrova, Jessica Ricci e William Hernández, oltre a Hoxha Dioklea, Antonino Arcilesi e Samuele Di Leo, individuati per le varie parti. Oggi, questo manipolo di giovanissimi interpreti ha debuttato sulla scena, grazie al lavoro – certo svolto in poco tempo, ma messo senz’altro a profitto – di Maria Paola Viano, regista dello spettacolo, ripensato proprio a partire dalle fragilità di una coppia di «due giovani, incapaci di ricevere e di dare amore.» Die Zauberflöte viene perciò interpretata come una moderna scuola di sentimenti, in un percorso a ostacoli in cui s’incrociano, si sovrappongono e talora si scontrano figure di ieri e di oggi, in un insieme certo eteroclito e contraddittorio, ma proprio per questo specchio delle difficoltà e della complessità della vita. Molti spunti risultano interessanti, altri forse meno, ma è indubbio l’impegno dei giovani cantanti, tutti spigliati ed esuberanti sulla scena. Alcune figure risultano particolarmente a fuoco: naturalmente quello più efficace è un Papageno in bicicletta, che identificherà la sua Papagena in una specie di Frugola pucciniana, con tanto di carrello da supermercato al seguito, prima di scoprirne forme generose e procaci. Si studia il comportamento di Tamino e Pamina nel microcosmo di Sarastro, impenetrabile fortezza dove il gran sacerdote agisce in camice bianco, inquietanti baffi a spazzolino e voluminoso riporto alla Hitler, a un passo dagli esperimenti del Dottore di Wozzeck. Meno persuade il fatto che la Regina della notte sia una starlette da varietà televisivo, con le tre dame a fare da backing vocalist, un po’ vintage nella riccia chioma platinata a metà tra Earth Wind & Fire e Village People; per tacere dell’Oratore in tuta protettiva e aspiratore sanitario o degli armigeri, giornalisti che raccontano in presa diretta le strane avventure di Tamino. A riconciliare questi mondi contrastanti – un po’ a immagine del nostro, effettivamente – sono i tre fanciulli: abbigliati in foggia settecentesca, piccoli Mozart in parrucca e sneakers con ombrelli a fiori, che si stagliano su un cielo settecentesco appena velato da nuvole passeggere. Interessante è stata la scelta di sopprimere le parti recitate, che invero avrebbero solo appesantito la rappresentazione, sostituite da una voce recitante fuori campo che, di fatto, diventa il narratore dell’azione: sono le riflessioni del padre di Pamina – almeno così si evince – che spiega, decifra, indirizza, sprona.
Di buone intenzioni è lastricata la strada del direttore d’orchestra, Alfredo Salvatore Stillo. Se ne percepisce il vigoroso imprinting sin dal triplice accordo iniziale, che avvia un racconto dinamico, agile, scattante. Ma già dall’apparire di Tamino e delle Dame le cose si complicano, perché l’equilibrio con la scena e con le ragioni del canto non sempre è calibrato e richiede progressivi aggiustamenti. È un Settecento grintoso, quello che caratterizza con energia, e che talvolta si vorrebbe più estatico (come nel caso di un «Tamino mein!» in cui latita il senso dello stupore) o morbidamente incantato. Per questo risultano più intriganti le parti squisitamente buffe, che ruotano intorno ai personaggi di Papageno, Monostatos e delle Dame: in primis l’agile Quintetto del primo atto, ma anche il delizioso duettino tra l’uccellatore e Pamina, che precede il solenne arrivo di Sarastro nel Finale primo: quasi a voler siglare una lettura in punta di bacchetta, che deve ancora maturare per apprezzare la poesia delle sezioni più liriche. E se l’orchestra non sempre ritrova le preziosità strumentali e lo smalto della recente Turandot, il Coro si conferma punto di forza delle produzioni, tanto la direzione di Fabio Modica è attenta nell’esaltare la compattezza dei volumi come la ricerca del suono: la maestosa celebrazione finale della bellezza e della saggezza conta tra i momenti più autenticamente suggestivi dell’esecuzione.
Di buona tenuta è l’intera distribuzione vocale: voci tutte giovani, fresche, perfettamente calate nei rispettivi ruoli, impegnate nel dare credibilità ai rispettivi ruoli. Particolarmente ben selezionati appaiono i due protagonisti della coppia nobile: Samuele Di Leo è un Tamino che riemerge con vigore dai flutti del fiume che sembra travolgerlo all’inizio, e presto si impone per un fraseggio accorto, tornito, con bello smalto vocale e temperato eroismo nel tratteggiare un personaggio certo tormentato, ma risoluto nella ricerca della virtù. Al suo fianco, Jessica Ricci è una Pamina acqua e sapone che dà prova di forza e determinazione grazie alle iridescenze di un’accattivante pasta vocale, ricca di armonici, piegata alla ricerca di sfumature: particolarmente toccante l’aria «Ach, ich fühl’s», cesellata con cura per i passaggi melismatici, impiegati a fini espressivi.
Antonino Arcilesi tratteggia un Sarastro scatenato. Proprio perché immaginato come scienziato pazzo costruisce il suo personaggio con grande disinvoltura, ma anche con attenzione alla linea vocale: «In diesen heil’gen Hallen» brilla per scorrevole fluidità di legato. Meno convince la Regina della Notte di Anastasiia Petrova sotto il profilo vocale, benché in crescendo nell’aria del secondo atto: al di là della facilità nella coloratura, dovrà vigilare soprattutto sull’intonazione, al momento visibilmente precaria.
Il resto del cast è partecipe, brillante, calzante. Flavio D’Ambra è un Monostatos vitaminico, spedito, timbratissimo, mentre Papagena risponde alla cospicua presenza vocale di Dioklea Hoxha, certo meritevole di più importanti sfide. Le tre Dame sono affidate al terzetto, ben calibrato, composto da Caterina Trevisan, Luisa Bertoli e Marta Di Stefano, mentre risultano semplicemente deliziosi i tre fanciulli, impersonati con brio da Alessandra Piro, Angela Genovese e Clarissa Di Lorenzo. Di eccellente grana l’Oratore di Mariano Orozco, che mette in luce la luminosità del suo registro grave anche nello splendido corale dei due Armigeri, intonato con Hengzhi Liu, a sua volta impegnato come svolazzante sacerdote al fianco del sicuro David Costa Garcia.
Rimane da dire di Papageno, che forse è la più felice scoperta della serata: William Hernández dà prova di una di una sicurezza e di un’esuberanza encomiabili, associata alla morbidezza di un timbro di pregio e di una vocalità tecnicamente ferrata per il repertorio buffo. Sin dalla sua sortita in scena riesce a calamitare l’attenzione del pubblico, grazie alla definizione di un personaggio sorridente, pasticcione e però anche amichevolmente protettivo nel lungo Finale I, in cui è supporto – vocale, prima ancora che scenico – alle prove di Pamina. Una prova eccellente, che nel tripudio del Duetto con Papagena, acclamato dal pubblico, trova un doveroso riconoscimento.
Giuseppe Montemagno
Fonte: CONNESSIALLOPERA.IT