Delegazioni dei popoli liberi e alleati, dei protettorati, deputati delle province e delle città: ogni imperatore riceveva quotidianamente ambascerie che venivano ammesse di volta in volta alla sua presenza, ognuna portatrice di richieste, lamentele o per richiedere consigli. E ogni imperatore riceveva, ovviamente, a suo modo. In egual misura, inaugurare un’opera pubblica, che sia un tempio, un teatro, un anfiteatro o un ponte, rappresentava il fondamentale adempimento di un dovere, ma a volte era lo scioglimento di un voto o di una iniziativa personale, che chiamava in causa gli dèi. Questi sono gli argomenti di cui parleremo in questa sesta tappa, che conclude la fortunata miniserie estiva dedicata alla giornata di un imperatore.
IL RICEVIMENTO DEGLI AMBASCIATORI
Teoricamente e tradizionalmente era il Senato ad accogliere le ambasciate, in presenza dell’imperatore. Claudio riceveva nella Curia e colloquiava in greco con gli ambasciatori greci.
Al termine della prima guerra contro i Daci, gli ambasciatori del re Decebalo vennero introdotti dinanzi ai senatori per compiere atto di sottomissione: deponendo le armi, essi congiunsero le mani come prigionieri supplicanti.
In caso di potere esecutivo vacante o in assenza del principe, il Senato era naturalmente il solo abilitato ad ascoltare gli ambasciatori. Ma la cancelleria imperiale tendeva a centralizzare tutti gli affari riguardanti le relazioni estere.
L’imperatore come arbitro dei conflitti
Il principe non rendeva giustizia solo ai suoi sudditi e ai suoi concittadini. A volte gli ambasciatori sollecitavano il suo giudizio per troncare conflitti o litigi che opponevano genti o partiti in seno ad uno stesso popolo, oppure contestazioni che sorgevano fra una nazione estera e il governatore romano della provincia limitrofa. Tenendo conto di volta in volta della situazione, dello stato delle frontiere degli affari interni di un protettorato, di uno Stato-cuscinetto (come l’Armenia) o di una provincia agitata (come la Giudea), queste delegazioni ponevano, a volte, problemi assai delicati. L’imperatore, allora, doveva consultare i suoi “amici” o il consilium principis. Così, nel 4 a.C., una delegazione di cinquanta Giudei venne a rivendicare l’autonomia della loro nazione dalla dinastia di Erode. Essi trovarono sostegno nella grande comunità ebraica di Roma, che contava ottomila persone e costituiva un gruppo di pressione importante all’interno dell’Urbs. Tuttavia, anche gli erodiani avevano fervidi sostenitori. Allora, Augusto convocò, nel tempio di Apollo Palatino, il consiglio dei suoi amici e dei Romani più autorevoli. Insieme a loro ascoltò le delegazioni, poi Nicola di Damasco, l’avvocato di Archelao, figlio di Erode. Dopo di che, l’imperatore congedò tutti e pronunciò il suo verdetto solo più tardi.
Nessuna rappresentanza permanente
Non esistevano rappresentanti accreditati e permanenti degli Stati stranieri a Roma, come i nostri ambasciatori o incaricati d’affari: gli ambasciatori erano tali sempre a titolo straordinario o temporaneo. Ma l’imperatore veniva sollecitato quasi costantemente. Svetonio scrive che “ogni giorno alcuni re si recavano a rendere omaggio ad Augusto. Indiani, Sciti e altri popoli lontani inviavano delegazioni. Egli non può spostarsi senza vedere arrivare, al suo passaggio sovrani vassalli del popolo romano, in toga, senza le loro insegne reali”.
Il “Ministro degli Affari Esteri”
A Roma gli ambasciatori dovevano chiedere udienza al capo della segreteria, ministro dei dispacci che aveva gli incarichi di ciò che oggi chiameremmo “affari interni” e “affari esteri”: era un incarico gravoso, anche se la corrispondenza greca era spesso separata da quella latina. Sotto Domiziano Flavio Abascanto ebbe questo incarico, e il poeta Stazio poté dire: “Non vi è nella sacra dimora compito più vario: inviare nel vasto universo, in ogni parte, gli ordini del capo della città di Romolo (…) prendere conoscenza dei messaggi ornati di alloro che giungono dalle regioni del Nord, delle notizie inviate dal vagabondo Eufrate, dalle rive dell’Ister dal doppio nome (il Danubio), dai battaglioni del Reno”.
Una presenza costante
Tutti i pretesti erano buoni per rammentare al principe che i suoi sudditi esistevano e che gli erano fedeli. Che si trattasse del suo felice avvento, di una nascita, di un matrimonio o di una adozione nella famiglia imperiale, del “saluto” dell’imperatore (ristabilitosi da una grave malattia o scampato ad una cospirazione), del suo ritorno a Roma, di un anniversario, di una vittoria o di un trionfo, si coglieva sempre l’occasione per indirizzare al principe omaggi, regali, congratulazioni e altri segni di lealtà.
In linea generale, i Cesari si preoccupavano di ascoltare le richieste delle province e delle città. Anche se malati, come Vespasiano, ricevevano le delegazioni personalmente. Antonino Pio prestava pazientemente ascolto alle lagnanze formulate contro i suoi procuratori. Adriano preferiva ascoltare i delegati provinciali sul posto e lavorare, come si dice, sul campo.
Le delegazioni permettevano al principe di essere costantemente al corrente di ciò che succedeva nell’impero, tenendo conto delle lusinghe convenzionali e del peso che potevano avere le notabilità. Alcuni imperatori erano talvolta seccati dal falso rituale dell’ossequiosità greco-orientale. A tal proposito, vi proponiamo un aneddoto sul nostro perennemente immusonito Tiberio. Un giorno alcuni ambasciatori di Ilio (Troia) rivolsero al campione di allegria, un po’ tardivamente, le condoglianze per la morte del figlio Druso: a sua volta, egli porse loro le sue condoglianze “per la morte del loro glorioso compatriota Ettore”, vittima del focoso Achille!
Nerone apprezzava le delegazioni dei popoli sensibili alle sue manie musicali. Le città greche in cui si svolgevano concorsi artistici, ebbero la buona idea di inviargli furbescamente tutte le corone dei citaredi. L’imperatore riceveva i loro ambasciatori prima di ogni altro e li invitava alle sue cene private. Abili e diplomatici come sempre, i Greci lo supplicavano di cantare e si estasiavano ad ascoltarlo. Nerone era raggiante: “Solo i Greci sanno ascoltare. Almeno essi hanno il senso dell’arte!” (non come i senatori…).
Spettacolari ricevimenti
La presenza di re, siano essi venuti come prigionieri, come postulanti o per farsi incoronare dall’Imperator-sovrano, era occasione di cerimonie che consacravano la vittoria e l’egemonia romane.
Il ricevimento più spettacolare fu quello di Tiridate, venuto a Roma nel 66 per farsi incoronare re d’Armenia. Al suo arrivo, Roma era illuminata dalle torce e decorata con ghirlande. I rappresentanti del popolo lo attendevano al centro del Foro, vestiti di bianco e con un ramo d’alloro in mano. I soldati erano schierati per coorti davanti ai templi. I tetti erano pieni di gente e persino le tegole degli edifici erano “nascoste dalla folla” (Dione Cassio). All’alba del giorno seguente, Nerone apparve indossando la toga trionfale, circondato dai senatori e dalla guardia pretoriana per raggiungere la sua sedia curule su di una tribuna dove brillavano le insegne e gli stendardi. Tiridate salì sulla tribuna imperiale dove il principe l’abbraccia prima di annodare sulla sua testa il nastro a fili d’oro: il neo-incoronato venne quindi proclamato re d’Armenia. Nerone condusse poi il suo ospite al teatro dove tutta la decorazione risplendeva d’oro, il colore di Apollo-Elio, il dio di cui l’imperatore-citaredo sosteneva di essere l’incarnazione. Sul velario teso per proteggere il pubblico dal sole, era ricamata l’immagine di Nerone che correva sul carro tra stelle d’oro. Al termine, il principe depose al Campidoglio una corona d’alloro in oro massiccio e chiuse il tempio di Giano. La pace era raggiunta, dicevano le didascalie sulle monete, “in terra e in mare”. Due anni dopo scoppierà la guerra civile che, insieme ad una crisi del regime, insanguinerà il mondo romano per diciotto mesi, fino all’arrivo di Vespasiano…
LE INAUGURAZIONI
Come abbiamo accennato all’inizio, l’imperatore era chiamato per inaugurare edifici pubblici. Egli innalzava o restaurava certi templi come adempimento di un voto o di propria iniziativa. Ma anche il Senato manteneva questo diritto, soprattutto quando il monumento in questione doveva consacrare gli onori divini conferiti ad un imperatore defunto o ad una imperatrice.
Il rituale di consacrazione
L’edificazione di un tempio doveva essere preceduta da un rituale religioso che è interessante riportare, in quanto è fondamentale per comprendere in quale misura ogni aspetto della società romana fosse avvolto da un profondo rapporto con gli dèi.
Prima dell’inizio dei lavori, l’area dove sarebbe sorto il nuovo tempio doveva essere “inaugurata”, ossia autorizzata dagli dèi in funzione degli auspici che l’augure otteneva dall’alto della cittadella capitolina, poiché il templum, lo spazio terrestre consacrato, era la proiezione di quello che gli uccelli indicavano e definivano in cielo. Il luogo doveva essere materialmente e sacralmente “liberato”, soprattutto se era già stato consacrato una volta: la qual cosa esigeva una exauguratio. Quando la preghiera inaugurale era pronunciata, il suolo diventava un luogo di culto “dichiarato” (effatus) e delimitato; veniva quindi consacrato ufficialmente dai pontefici ed in particolar modo dall’imperatore in quanto Pontifex Maximus. La prima pietra poteva, quindi, essere posta.
Ciò che noi chiamiamo “inaugurazione”, avveniva soltanto al momento della dedicatio, quando i lavori erano terminati. Questa “dedica” coincideva con il giorno “natale” del tempio di cui sarebbe celebrato ogni anno l’anniversario, con cerimonie più solenni per i cinquantenari e i centenari.
In quanto Pontefice Massimo, l’imperatore pronunciava, col capo coperto, la formula dedicatoria tenendo con le due mani la porta del nuovo santuario. Non doveva fare lapsus. L’uditorio osservava un religioso – è proprio il caso di dirlo – silenzio. Nessun incidente, nessun rumore, nessun grido di animale doveva disturbare la cerimonia che era seguita da un sacrificio, da festeggiamenti, manifestazioni di giubilo e spettacoli vari.
La ricostruzione di un tempio, soprattutto se era stato danneggiato da un incendio o se aveva subito una distruzione violenta, necessitava di un rituale analogo. Vespasiano, ad esempio, si adoperò personalmente per togliere le macerie del Tempio di Giove Capitolino, distrutto durante le guerre civili del 69. Per primo, portò via sulle sue spalle un sacco di terra per dare l’esempio ai senatori presenti ed alla folla che, a sua volta, lo imitò. Dopo lo sgombero, lo spazio del santuario venne recinto da corone e da bende e vi penetrarono inizialmente, con un ramoscello in mano, i soldati i cui nomi erano di buon augurio, poi le Vestali, le figlie e i figli dei senatori che procedettero ad aspersioni di acqua lustrale, ed infine il pretore Elvidio Prisco che offrì un triplice sacrificio di un verro, un montone e un toro: era un sacrificio di purificazione, poiché il fuoco e la follia degli uomini avevano macchiato questo luogo sacro. Le interiora delle vittime vennero esposte sull’erba e si pregò Giove, Giunone e Minerva (la cosiddetta Triade Capitolina). Quindi il pretore toccò le bende intrecciate alle corde che legavano la prima pietra. Subito, gli altri magistrati, i pontefici, i senatori, i cavalieri e una parte della folla, tirarono le corde per sistemare al suo posto l’enorme blocco. Mucchi di monete d’oro e d’argento e blocchi di minerali allo stato grezzo vennero gettati nelle fondamenta. Ecco iniziata la ricostruzione materiale del tempio. Vespasiano lo avrebbe dedicato l’anno dopo.
Inaugurazioni spettacolari
Un’inaugurazione insolita e spettacolare fu quella della colossale diga che Caligola fece costruire tra Baia e Pozzuoli: vascelli da carico furono ricoperti di terra per dare all’insieme l’immagine della Via Appia: più di cinque chilometri di lunghezza in pieno mare! Per la circostanza l’imperatore, con in capo una corona di foglie di quercia e con indosso una clamide intessuta d’oro, caracollò col suo cavallo riccamente bardato, andando avanti e indietro per farsi notare. Svetonio aveva sentito dire a suo nonno che, “secondo le persone che ficcavano il naso nei segreti di corte”, Caligola voleva in tal modo dar torto all’astrologo di Tiberio, Trasilla, che diceva: “Caio (ossia Caligola) ha possibilità di essere imperatore quanto di attraversare a cavallo il Golfo di Baia!”.
Inaugurazioni finite male
Ne è un esempio quella di un canale emissario del lago Fucino, nel 52. In quell’occasione Claudio organizzò sul lago un combattimento di triremi e quadriremi, al quale parteciparono diciannovemila uomini e un grande spiegamento di truppe sulle zattere disposte in cerchio, con ridotte, catapulte e squadroni della guardia imperiale. Dopo il combattimento (detto naumachia) vennero liberate le acque, ma il canale di scarico costruito non era abbastanza profondo. Si rese necessario scavare ancora più profondamente l’emissario sotterraneo e, per attirare di nuovo la folla, si organizzarono combattimenti di gladiatori sui ponti. Venne offerto un banchetto vicino allo scarico, quando le acque strariparono con violenza travolgendo ogni cosa: tavoli, letti e convitati. Fu subito il panico e poco importò che l’imperatore non sia annegato, travolto dalla corrente: Agrippina ne approfittò per incriminare l’odiato e potente Narciso, responsabile dei lavori.
Inaugurazioni come adempimento di un voto
Alcune inaugurazioni coronavano una vittoria nella misura stessa in cui esse costituivano l’adempimento di un voto pronunciato nel pieno della battaglia. Aureliano fece costruire il suo colossale Tempio del Sole grazie al bottino guadagnato a Palmira nel 273, vicenda narrata in un precedente articolo, per chi vuole approfondire. In questo tempio vi fece deporre abiti preziosi intarsiati di gemme, le insegne o “dragoni” dei Persiani, tiare costellate di gioielli, un cumulo d’oro e di pietre preziose. Vi consacrò le gigantesche statue di Elios e del dio stesso dei vinti, Bel (il cui tempio a Palmira è stato recentemente distrutto dal criminale e ignorante fanatismo islamico del califfato dell’Isis), secondo la tradizione romana dell’evocatio che consisteva nel conquistare a vantaggio di Roma le potenze soprannaturali onorate dal nemico.
Ringraziamenti
Si conclude qui questa miniserie nella quale abbiamo seguito come ombre discrete l’imperatore nel corso della sua giornata. Al termine di questo progetto editoriale, che coincide quasi con l’inizio dell’equinozio d’autunno, mi è doveroso e gradito il compito di ringraziare tutti i numerosi lettori che hanno avuto la pazienza e la bontà di leggere, apprezzare e condividere gli argomenti trattati. Il vostro sostegno è un valore aggiunto che, unito alla passione dello scrivente, lo incoraggia a perseverare. La “Stele di Rosetta” continua, dandovi appuntamento per le prossime uscite, con nuovi argomenti che, speriamo, trovino buona dimora nei confronti di un pubblico esigente, attento e sempre più interessato (per fortuna) alle storie sulle testimonianze del passato.